Skip to main content

Il piano di Trump per il Medio Oriente

Dai dati che possiamo verificare nei mass-media, il piano per il Medio Oriente del presidente Donald Trump, non ancora del tutto espresso, è basato, secondo le parole del genero-consigliere Jared Kushner, su quattro principi-base: libertà di religione, libertà nelle opportunità di vita e professionali, libertà di movimento e politiche.

Poi, ci sono anche le opportunità, ovvero la possibilità, da parte dei giovani, di non essere assorbiti dai conflitti che hanno rovinato la vita ai loro padri, e ancora vi è nel piano la sicurezza, per la vita e il lavoro, di tutti i cittadini del Medio Oriente.

Infine, il rispetto, tra le persone, le religioni, i partiti e i gruppi etnici. Etica protestante e affari, il classico nesso della politica estera Usa. Quasi un ricordo del vecchio testo, sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, scritto da Max Weber.

Sul piano economico e operativo, il piano Trump si concentra sulle infrastrutture, soprattutto nella West Bank e nella Striscia di Gaza.

È questa l’idea, centrale nel piano Trump, di diluire, stemperare e infine eliminare il conflitto tra Israele e gli Stati arabi confinanti, tramite una vasta messe di investimenti.

Il che può creare il clima migliore per una pacificazione stabile tra lo stato ebraico e l’universo islamico (ma anche laico) che lo circonda.

LA STRATEGIA DEGLI INVESTIMENTI

Non ci sono dati precisi sugli investimenti collegati al nuovo piano Trump per il Medio Oriente, ma le fonti più autorevoli citano un totale di 25 miliardi di usd tra West Bank e Gaza, da dare in dieci anni, oltre a un investimento di ben 40 miliardi di usd in Egitto, Giordania e, probabilmente, Libano, investimenti regolati su una serie di risultati intermedi da verificare. Il limite temporale è sempre il decennio, anche in questi casi.

Questi sono, oggi, i dati più certi, ma vi sono anche notizie su un investimento, tra Striscia di Gaza, West Bank e il resto dei Paesi arabi, di almeno altri 30-40 miliardi di dollari, soprattutto in infrastrutture.

Da chi proviene il denaro? In grandissima parte, dai Paesi arabi “ricchi”, ma anche gli Usa collaboreranno agli investimenti, ma non sappiamo ancora di quanto.

Jared Kushner ha visitato, tra il febbraio e il marzo scorsi, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e il Bahrain, il presidente turco Erdogan, poi l’Arabia Saudita, nella quale Kushner ha un ottimo rapporto personale con Mohammad bin Salman; e infine il Qatar.

Sempre Kushner, l’anima della politica del Presidente Trump in Medio Oriente, ha chiarito che, oltre agli investimenti, il Piano riguarda i confini tra le differenti aree.

Kushner, in effetti, più che pensare a nuovi confini, immagina un Medio Oriente “senza confini”.

Il solito mito post-moderno, questo dei no borders, secondo il quale le linee che separano gli Stati sono tutte artificiali, pericolose, innaturali e generano sempre guerre.

No, è il contrario: le guerre nascono perché non ci sono abbastanza confini.

LA PERDITA DEI CONFINI

Alla perdita dei confini, sempre secondo Kushner, segue un aumento degli scambi economici e del passaggio di persone, con un aumento, egli spera, delle “opportunità”. Non è vero, poi, che i Paesi che commerciano tra di loro non si fanno guerra: basti pensare agli Usa e al Terzo Reich nella seconda guerra mondiale, o alle infinite azioni britanniche in Asia Centra e in India. Più si commercia, anzi, più ci sono motivi per deformare o stabilire una egemonia strategica.

Le stesse opportunità, quelle citate da Kushner, che valgono oggi per i migranti centro-africani, dalle loro terre (che non sono “in guerra”, come credono i governanti europei) verso l’Ue, o per i profughi della guerra in Siria, tra la Turchia, i Balcani e l’Europa Centrale. Opportunità senza realismo. Nemmeno un film di Hollywood può trasformare la tragedia delle migrazioni in un mercato delle facilissime “opportunità”.

Naturalmente, l’eliminazione delle frontiere significa anche l’evaporazione dello “stato palestinese”.

Sarà difficile, infatti, che i Paesi arabi finanzino una ricostruzione economica con Gerusalemme come capitale di Israele.

Peraltro, i sauditi non vogliono nemmeno perdere del tutto l’asset strategico palestinese, proprio ora che l’Iran sta penetrando nel sistema politico e militare della Striscia di Gaza e dei Territori dell’Anp.

Anche Mohammed bin Salman, il principe ereditario al potere, de facto, a Riyad, vuole comunque “uno stato palestinese unico e indipendente, con Gerusalemme come capitale”.

Difficile pensare che sauditi e israeliani pensino come un ragazzino no borders.

È proprio questo il punto.

Se gli Stati Uniti dovranno, in un contesto di delicatissimi equilibri infra-arabi e degli arabi con Israele, prendersi cura direttamente del sostegno ai palestinesi, allora arriveranno sicuramente dei problemi, giuridici ma non solo.

Il Taylor Force Act, per esempio sancisce, dal marzo 2018, che gli Stati Uniti non potranno più sostenere finanziariamente l’Autorità Nazionale Palestinese, dato che essa aiuta, come recita l’Act stesso, i terroristi jihadisti che attualmente sono detenuti nelle carceri israeliane.

L’Act, poi, stabilisce dei forti limiti al sostegno finanziario per la Striscia di Gaza e la West Bank.

Un impedimento giuridico non da poco, per le azioni mediorientali “no borders” della Presidenza attuale degli Usa.

LA CONFERENZA DI BAHREIN

Inoltre, gli Stati del Golfo non sono molto contenti di finanziare quasi completamente il piano per il Medio Oriente della Casa Bianca, e vorrebbero un impegno finanziario degli Usa ben più solido di quello previsto.

I Paesi del Golfo e gli altri paesi arabi integrati nel piano di Trump vogliono “vedere”, nel senso del poker, quanto materialmente gli Usa metteranno a disposizione del loro piano, e solo dopo metteranno, se è il caso, mano al portafoglio.

Il presidente Trump ha poi indetto un “laboratorio economico” a Manama, in Bahrein, per il 25 e 26 giugno prossimo, una conferenza alla quale saranno invitati uomini d’affari e imprenditori anche dall’Europa, ma soprattutto dall’Asia e dal Medio Oriente.

L’organizzazione della conferenza in Bahrein è ormai decisa: l’amministrazione Trump inviterà solo i ministri delle finanze, non i ministri degli esteri europei, asiatici e mediorientali.

Ci saranno anche molti e importantissimi dirigenti delle grandi imprese globali, da tutto il mondo, per discutere di investimenti nella West Bank e a Gaza, soprattutto.

Il piano di Trump è stato comunque discusso, in via riservata, con 25 tra i più importanti dirigenti delle imprese internazionali, alla Milken Conference di Los Angeles, il 29 e 30 aprile di quest’anno.

Tra i possibili interlocutori di Trump per il suo progetto mediorientale, alla Milken ci sono stati certamente Ibrahim Ajami, il capo del venture capital di Mubadala, il maggior veicolo di investimento di Abu Dhabi, Joussef Al Otaiba, ambasciatore degli Emirati in Usa, Khalid al Rumaihi, CEO del Fondo Economico di Sviluppo del Bahrain, Ibrahim Salaad Almojel, direttore generale del Fondo per lo Sviluppo Industriale dell’Arabia Saudita, la direttrice della Deloitte, Margaret Anderson, Ernesto Araújo, ministro degli affari esteri del Brasile, e molti altri dirigenti di fondi di investimento e imprese.

Israele è stata invitata al workshop in Bahrein, probabilmente con il ministro delle finanze Moshe Kalon, o altri, se vi saranno evoluzioni nella crisi politica di Gerusalemme.

È bene però notare che Israele e il Bahrein non hanno rapporti diplomatici, ma questa missione sarebbe un forte stimolo alla regolarizzazione tra Manama e Gerusalemme.

Anche la ANP sta, comunque, boicottando l’amministrazione e il Piano di Trump per il Medio Oriente, ma la Casa Bianca ha già invitato anche un folto gruppo di uomini d’affari palestinesi, che potrebbero partecipare, a Manama, solo a titolo personale.

LA REAZIONE EUROPEA

La vecchia classe politica dell’Unione Europea ha reagito al Piano di Trump in modo del tutto prevedibile: essa sostiene ancora il piano dei “due stati” tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, roba da vecchia guerra fredda, con un panel di oltre 35 leader europei, da Massimo D’Alema a Franco Frattini fino, per citare i più noti, a Ana Palacio e a Willy Claes, già segretario generale della Nato.

In effetti, a parte l’astio della ANP per l’amministrazione Trump, non c’è, nel progetto della Casa Bianca, sia pure solo genericamente delineato, un particolare rifiuto della soluzione dei “due stati”.

E, a dire il vero, ieri come oggi, la sopravvivenza dello Stato Palestinese, nelle forme attuali, è spesso impedita dagli stessi Paesi arabi, che hanno interesse più a una guardia stabile ai confini di Israele che non a una sede stabile per il popolo palestinese.

La polemica di parte democratica, negli Usa, si appella, contro il piano di Trump per il Medio Oriente, a tre principi: infatti essa non accetta le “realtà sul campo”, compresa la prevista annessione, da parte di Gerusalemme, di parte della West Bank, poi rifiuta le linee di divisione di carattere etnico o religioso, fino al rifiuto dell’accettazione dello stabile controllo, da parte di Israele, dei territori occupati.

Diminutio capitis per Israele, e tutto, secondo certi analisti andrà per il meglio. E se fosse vero l’esatto contrario?

Ma, sul piano strategico, anche senza i territori occupati, la possibilità di un attacco, anche eterodiretto, ad Est verso Israele aumentano verticalmente.

E, peraltro, questo accade oggi e da tempo anche dalla Striscia di Gaza.

In sostanza, l’opposizione a Trump è, sostanzialmente, solo punitiva nei confronti di Israele, mentre ritiene l’area palestinese irrilevante dal punto di vista militare e strategico.

Sono stati in tutto il 2018, ben 17 i lanci di razzi sul territorio israeliano dalla sola Striscia di Gaza, tutti con vettori plurimi. Oltre ad altre varie operazioni militari dal territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese nello West Bank. E da qui contro Israele.

IL RAPPORTO USA – ISRAELE 

D’altra parte, Trump può anche scommettere sul fatto che il rapporto tra i Paesi arabi e Israele è radicalmente cambiato, negli ultimi 50 anni.

Quattro stati arabi, Giordania, Arabia Saudita, Egitto e Emirati Riuniti hanno, oggi, un forte ascendente, anche materiale, sulle organizzazioni palestinesi.

Anche se l’interesse strategico di certo mondo arabo è ormai minimo, per l’ANP e i suoi territori.

Sia i sauditi che gli Emirati hanno poi oggi, diversamente dal passato della guerra fredda, rapporti costanti, buoni ma, inevitabilmente, sottotraccia, con Israele.

Quindi, sia i sauditi che gli Emirati possono, oggi, esercitare un influsso politico rilevante sia su Israele che sui palestinesi.

Da ciò deriva una crisi strutturale della presenza nordamericana in Medio Oriente, mentre sia i sauditi che la Giordania, malgrado la guerra nella vicina Siria, non hanno mai voluto verificare la volontà di Washington di tenere le sue posizioni in Medio Oriente.

Se gli Usa se ne vanno dall’area mediorientale, allora i sauditi potrebbero giocare una loro pesante carta, per la pace con lo Stato ebraico, mentre gli altri Paesi arabi e islamici interessati all’area, Egitto, Emirati, magari anche la Turchia, potrebbero giocare anche al gioco dell’espansione della loro area di influenza, con o senza l’accordo con Gerusalemme.

Che, comunque, sarebbe alla fine inevitabile.

Certo, c’è una notevole disillusione sui palestinesi e la loro “causa”, da parte del mondo arabo.

L’ANP è un fallimento statuale, economico, strategico di grandissima rilevanza, e il mondo arabo saudita e degli Emirati non vuole mantenere ad infinitum una pressione contro Israele, proprio ora che lo stato ebraico, analizzando correttamente la nuova strategia mediorientale, ha buoni rapporti proprio con le potenze petrolifere del Golfo.

E potrebbe essere un asset inevitabile e risolutivo, l’area palestinese, contro il quadrante sciita, dominato dall’Iran.

Israele, in questo nuovo sistema, ha la possibilità di un minore isolamento regionale, ma anche una minore pressione araba per la soluzione del problema di Gaza e della West Bank, e la minore difesa internazionale dei palestinesi.

I sauditi e gli altri alleati, compresi l’Egitto e la Giordania, non scommettono infatti più sui palestinesi, data la rottura tra Hamas (che è una costola dei Fratelli Musulmani, e questo l’Egitto di Al Sisi lo sa bene) e Fatah nei Territori.

Il frazionamento dei palestinesi annulla il vantaggio strategico che possono offrire al resto del mondo arabo.

Per evitare che altri, Turchia e Iran soprattutto, si intestino la causa palestinese, i sauditi e i loro alleati sostengono ancora, verbalmente, l’ANP.

Quindi, o si immagina un nuovo Piano di Pace nel Medio Oriente diverso dal solito, o si fallisce miseramente.

L’Ue, come al solito, è indietro di almeno dieci anni, con il suo sostegno da “guerra fredda” ai palestinesi. Come se fossimo ancora alla Guerra del Kippur.

Gli Usa possono risolvere la questione palestinese disinnescandola, chiedendo agli alleati arabi un diverso rapporto con Hamas, eliminando poi la nuova presenza iraniana nell’area al confine con Israele. A parte Hezbollah, che rappresenta una questione a parte.

Poi, ancora, evitare il mito no borders, l’area va ben controllata proprio perché diventerà un luogo per investimenti di grande rilievo.

Ancora, infine, occorrerà stabilire che Israele può allargarsi verso Est, ma solo in un nuovo accordo internazionale sul Medio Oriente. Che riguarderà anche confini, aree di influenza, divisioni del lavoro internazionale e investimenti. Anche di tipo militare.

×

Iscriviti alla newsletter