Il dibattito sul tema dell’equilibrio del nostro bilancio pubblico evidenzia una assenza: si trascura di prendere in considerazione l’assetto istituzionale.
Vediamo brevemente alcuni snodi istituzionali –che consideriamo scontati e su cui tralasciamo di riflettere- che si intersecano a fondo con il tema del bilancio pubblico e del suo equilibrio/squilibrio. Proviamo a mettere insieme tre stili istituzionali ben noti. Da una parte la difficoltà delle nostre banche a trasformare il risparmio in investimento (per prestare le risorse a loro affidate le nostre banche richiedono garanzie reali, non sapendo valutare il rischio delle operazioni che gli imprenditori vorrebbero vedersi finanziate). Da un’altra parte la resistenza culturale delle nostre imprese familiari ad aprirsi ad un azionariato esterno alla famiglia, a ricercare il finanziamento per il proprio sviluppo nel mercato dei capitali. Da ultimo il fatto che il finanziamento dello sviluppo è messo a disposizione solo dalla mano pubblica: istituti di credito pubblici ad hoc, finanziamenti a fondo più o meno perduto da parte di enti pubblici.
IL PARAGONE COL GIAPPONE
Sarebbe probabilmente utile chiedersi se tra il debito pubblico e il finanziamento delle iniziative private da parte pressoché esclusiva della mano pubblica non esista un qualche tipo di rapporto. In questa riflessione non andrebbe tralasciato il fatto che la mano pubblica, nel decidere quale progetto finanziare tra le richieste ricevute, non si rifà a criteri tecnici di valutazione del rischio ma a criteri relazionali. Chi oggi si aggrappa al caso del Giappone, dove il debito pubblico è circa il 200% del Pil in effetti si rifà ad una ragionamento di questo tipo. È certamente vero che il bilancio pubblico ed il suo equilibrio sono una questione più istituzionale che economico-finanziaria. Non si dovrebbe comunque tralasciare di prendere in considerazione il fatto che, là dove il debito pubblico gioca un ruolo di equilibrio sociale, ci si trova di fronte a società di tipo altamente tradizionali e corrotte. La corruzione giapponese non credo sia superata da altre culture. I casi dei Paesi dell’Europa Centrale e Orientale (dove presso che assenti sono i casi di bancarotta fraudolenta) sono casi da educande rispetto alle pratiche giapponesi!
ITALIA A CORTO DI CAPITALI
Un problema collegato è quello della assenza nel nostro Paese di concentrazioni di capitali tali da permettere di gestire grandi iniziative economiche. Al momento della privatizzazione delle nostre partecipazioni statali, privatizzazione attivata dal processo di Maastricht, abbiamo fatto dei salti mortali da veri saltimbanchi. A parte il sospetto che molti ex manager di Stato si siano trasformati in proprietari in maniera molto simile a quanto fatto dagli oligarchi russi, o si è ricorso a capitali stranieri o si sono trasformate in società fintamente privatizzate entità pubbliche o parapubbliche. Significativo è il caso delle fondazioni bancarie, entità altamente politicizzate in cui sono stati concentrati i diritti di proprietà di istituti bancari sino ad allora gestiti secondo la logica di enti pubblici. Qui non c’è da meravigliarsi se le nostre banche vengono percepite –e definite quando si parla off the record- come “organizzazioni di stampo sovietico”, istituti che non concedono il loro sostegno a progetti di investimento secondo criteri tecnico-professionali di valutazione del credito ma sempre e ancora secondo criteri politici il che oggi vuol dire secondo criteri relazionali. Richiedere il rispetto dei criteri di equilibrio di bilancio può risultare in una vera e propria rivoluzione culturale che, oltre ad avere pesanti effetti di disorientamento, porta con sé tutta una serie di reazioni di rigetto con sintomi molto sgradevoli.
LE COLPE DELL’EUROPA (E DELL’ITALIA)
Qui va tenuto presente che questa reazione è comune un po’ a tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea. Non va dimenticato che la costruzione europea ha alla sua base la volontà degli alleati vincitori della Seconda guerra mondiale di contrapporre al blocco dell’est Europa un blocco modernizzato. La Commissione ha svolto un ruolo di motore modernizzante per spingere allo smantellamento degli imperi para-pubblici all’interno dei singoli Stati Membri. Non solo nei confronti dell’Italia ma anche nei confronti di altri Stati Membri, in particolare nei confronti della Francia. Qui non andrebbe dimenticato come i commissari francesi e giudici francesi alla Corte di Giustizia hanno a suo tempo castigato la politica di espansione dell’economia pubblica perseguita in Francia da Balladur. La forza della Commissione sta proprio nel fatto che i Commissari non si identificano con il Paese di provenienza. Questo no solo per correttezza (emblematico il caso di Delors) ma anche perché i Commissari hanno potere ed autorità nella misura in cui non si identificano con il proprio paese ma con la Struttura sopranazionale. Qui va sottolineato che, sia a livello dei singoli Stati Membri che a livello Ue, non si è prestata sufficiente attenzione alle riforme istituzionali che sarebbero necessarie per realizzare l’equilibrio di bilancio. Tra le riforme istituzionali necessarie non va sottovalutata la necessità di dotarsi di competenze professionali oggi per lo più assenti nelle amministrazioni degli Stati Membri. Su questo argomento c’è sicuramente molto spazio per il dialogo e la negoziazione tra Roma e Bruxelles.