“Una società che non è più capace di prendersi cura di chi è vulnerabile diventa disumana”. Queste parole del cardinale Joseph Farrell, prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, che sono probabilmente la sintesi migliore del rito che ha presieduto su richiesta della Comunità di Sant’Egidio, Centro Astalli, Caritas, Migrantes, Chiese Evangeliche, Acli, Scalabriniani, Comunità Papa Giovanni XXIII: ieri, giornata mondiale rifugiato, loro si sono riuniti nella basilica di Santa Maria Maria in Trastevere per pregare in memoria di quanti perdono la vita nei viaggi verso l’Europa.
QUANDO LA SPERANZA UCCIDE
Una preghiera intitolata drammaticamente “morire di speranza”. Ed è il decimo anno che nomi di chi non ce la fa, risuonano nella basilica romana. Dieci anni che hanno visto l’indifferenza o l’ostilità per chi fugge verso l’Europa aumentare in modo esponenziale, a differenze delle vie legali d’accesso al nostro continente. Non può sorprendere che il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, lo abbia sottolineato: “ Le morti in mare non sono una statistica, ma una tragedia dell’umanità di fronte alla quale non si può restare indifferenti. Da Santa Maria in Trastevere lanciamo un appello perché si aprano con urgenza nuovi corridoi umanitari e nuove vie legali di ingresso in Europa”. Impagliazzo ha pregato seduto in prima fila, davanti al piccolo giubbotto arancione che è stato deposto ai piedi all’altare e a un candelabro dove ad ogni nome di morto di speranza che veniva scandito si aggiungeva un cero. Quel giubbotto poteva essere stato raccolto al largo delle coste spagnole, di quelle italiane, di quelle greche, e indicava l’unicità di un’emergenza che si aggrava sempre di più per il senso di estraneità ad essa di chi ne è protagonista; le società europee. Il filo spinato di Ceuta e Melilla, il porto chiuso di Lampedusa, il campo recintato di Lesbo, pensato per tremila asilanti e che nel 2018 ne accoglieva novemila, un terzo dei quali bambini, il 25% dei quali avrebbe pensato o tentato il suicidio.
TANTE CHIESE PER UNA CAUSA
Ed è per tutto questo che sull’altare di Santa Maria in Trastevere, nel caldo afoso romano, oltre a numerosi sacerdoti cattolici, c’erano rappresentanti del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, della Chiesa anglicana, di quelle ortodosse romena, eritrea ed etiopica, dei battisti, dei valdesi, dei metodisti, dei greco cattolici ucraini, dei siro-cattolici oltre ai sacerdoti espressione dei promotori. Guardarli nei loro paramenti induceva a domandarsi come mai questa preghiera riguardi ormai più di 38 mila persone, quelle che dal 1990 hanno tentato senza riuscirci di arrivare in Europa, ma non abbia coinvolto quelle autorità civili di solito molto attente alle cerimonie religiose. Eppure nella preghiera di ieri, come ha detto nella sua intenzione di preghiera il direttore di Avvenire, c’è stato posto anche per i politici europei, perché sappiano compiere scelte di umanità e di accoglienza. La separazione tra Chiesa e Stato, sempre cara ai credenti illuminati e ai laici, ieri non brillava. Anzi, ricordava società ferite, smarrite, impaurite, distratte, confuse. Così questo rito oltre che a chi è morto di speranza ha finito col riguardare tante città dove offerte di lavoro non trovano riscontro e campagne ricolme di caporalato, perché tutto si tiene quando si pensa di fermare la storia, senza ricordarsi che lì dentro c’è anche la nostra, di storia. “Siamo qui a chiedere al Signore di custodire la nostra umanità” ha detto nel saluto iniziale monsignor Gianpiero Palmieri, vescovo ausiliare di Roma.