La vicenda degli affidi illeciti di Reggio Emilia, sulle prime pagine con dovizia di orrori in questi giorni, solleva il velo su un tema troppo spesso sommerso da una cortina omertosa di silenzio (neutrale o inconsapevole?) nel dibattito pubblico, quello delle adozioni. Perché è giusto quello che tra i (pochi) commentatori dell’affaire reggiano viene raccomandato: “non sparate sul pianista” che, in questo caso, è l’istituto dell’affido. Ma è anche necessario comprendere che stiamo parlando non di un mondo perfetto e di un impianto giuridico capace di dare risposte efficaci e all’altezza dell’interesse superiore del bambino, ma di un sistema spesso umiliato dalla farragine di procedure che consentono l’inserzione – come sempre accade in questi casi – di comportamenti devianti.
Cerchiamo di capirci. Intanto di che cosa parliamo. L’adozione di un bambino può avvenire attingendo a canali internazionali oppure nazionali. I canali internazionali poggiano su complessi meccanismi di intesa tra Stati sovrani, trattati, accordi, protocolli che vedono al centro strutture associative accreditate per svolgere il ruolo di interfaccia tra Stati e privati. È un mondo complicato con regole che non possono essere cambiate se non consensualmente tra i contraenti. Dunque lasciamo stare. Esiste, però, anche un canale nazionale. Con la legge 28 marzo 2001, n. 149 si decise la chiusura degli orfanotrofi, che finirono di operare nel 2008. Da allora circa 30/35mila bambini e ragazzi italiani di età minore ai 18 anni (tra cui almeno 400 neonati abbandonati all’anno) orfani o allontanati dai genitori sono temporaneamente ospitati in strutture accoglienza, sostenute dallo Stato, dove permangono mediamente tre anni.
A fronte di questo almeno 10mila famiglie chiedono di adottare bambini. Solo il 10% vedrà esaudita la richiesta, dopo un percorso ad ostacoli, oggettivamente frustrante, che dura ad andar bene non meno di tre anni di attraversamento del deserto con la compagnia di psicologi, assistenti sociali, tribunali dei minori e oneri burocratici da far cadere le braccia ai santi. La legge 184 del 1984 disegnò il quadro dei requisiti richiesti alla coppia adottante, che prevedono, tra l’altro, che i coniugi siano sposati da almeno tre anni, che la differenza di età tra gli adottanti e l’adottato sia compresa dai 18 ai 45 anni, che gli adottanti siano affettivamente idonei a educare, istruire e mantenere i minori. Accade, invece, che la griglia delle prerogative imposte ai genitori putativi venga brandita come un machete per tagliare via ogni speranza. Che poi sarebbe una speranza di amare, di donare, di dare senso ad una genitorialità che si rivolge a bambini e ragazzi i quali vivono la loro infanzia non in un contesto di affetti ma in un contesto istituzionalizzato.
È difficile da comprendere perché, verificati i requisiti posti dalla legge e cioè età, situazione familiare, e poi equilibrio mentale, capacità anche economica di dare un’avvenire all’adottando, e “affectio”, si continui, con rara pervicacia burocratica, a praticare strategie di scoramento per coppie motivate e ad agire, oggettivamente, a danno del minore, costretto alla condizione istituzionale o al girovagare per affidamenti lasciando qua e là brandelli d’amore alternati a distacchi laceranti. Per affidatari e affidati.
Legislatore, non è forse il caso di darci un’occhiata?