L’undici giugno 2019, nel corso di una riunione tenutasi ad Abuja, la capitale federale della Nigeria, i quindici membri dell’Ecowas (Economic Community of West African States) hanno deciso di coniare, molto probabilmente per il 2020, una nuova moneta africana, il cui nome è stato già scelto: “Eco”.
I quindici Stati dell’Ecowas (la stessa associazione che in sigla francofona, si chiama Cedeao e che si occupa soprattutto di una parte dell’applicazione del Franco Cfa) sono, lo ricordiamo, Benin, Togo, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau e Liberia, che pure fondò Ecowas nel 1964, poi con la ulteriore definizione del trattato di Lagos nel 1975, arrivarono Mali, Niger, Nigeria, Senegal e Sierra Leone.
Si noti che, mentre la Mauritania ha abbandonato completamente l’Ecowas nel 2000, il Regno Alawita del Marocco, dal 2017, ha invece richiesto ufficialmente di parteciparvi.
Il progetto di “Eco”, che dura, almeno programmaticamente, dal 2015; e che risuona molto come l’”Euro”, è nato però all’interno di una associazione fra Stati più ristretta di ECOWAS, ovvero la Wamz, West African Monetary Zone, che si compone di Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Nigeria, Sierra Leone.
Stati che appartengono anche all’Ecowas, come si può vedere, ma che intendono arrivare ad un’unione economica e monetaria molto simile a quella dell’Ue, avendo peraltro economie meno distanti tra di loro di quelle dell’intero insieme di Ecowas.
Il lancio di Eco, lo ricordiamo, è stato rimandato fin dal 1983, e oggi si prevede nel 2020, ma sempre sulla carta.
I francesi lo definiscono, con una vecchia formula del gergo giornalistico estivo, un “serpente di mare”, ma bisogna stare sempre molto attenti alle eccessive semplificazioni e alla scarsa stima per amici e avversari.
Certo, otto tra i Paesi dell’Ecowas-Cedeao dovranno quindi abbandonare il Franco Cfa, mentre gli altri sette la loro moneta nazionale.
Si richiede per la nuova Eco, come dice il comunicato finale dell’ultima riunione dei 15, un “approccio graduale” a cominciare da quei Paesi che mostrano un più evidente “livello di convergenza”.
Per l’Ue e il suo euro, i criteri di convergenza furono, lo sappiamo bene, la stabilità dei prezzi, che è vista come unico segno dell’inflazione, ma non sappiamo quanto questa idea sia corretta, poi le finanze pubbliche “sane e sostenibili”, che non vuole dire nulla ma che, in Ue, vuol dire disavanzo non superiore al 3% del Pil e debito pubblico non oltre il 60% del Pil.
I NUMERI DELL’AFRICA
In Africa, da questo punto di vista, le cose non vanno troppo bene.
Da poco, il debito di tutto il continente nero ha superato i 100 miliardi di euro, dopo che il Ghana ha acceso da poco tempo un debito, denominato in euro, e in un sol colpo, di 2,6 miliardi.
Nel solo 2018 i Paesi africani sono arrivati a un debito totale e solo in euro di 27,1 miliardi, ma nel 2017 Egitto, Ghana e Benin hanno preso euro in prestito per 7,6 miliardi. La Nigeria arriverà poi ai 17,6 miliardi di euro di debiti alla fine di quest’anno. Dieci Paesi africani hanno già emesso eurobond, tra poco ce ne saranno 21.
Ma è anche vero che il rapporto debito/Pil dei Paesi africani è in media del 53%, mentre negli anni ‘90 e nel primo decennio del 2000 eravamo arrivati al 90%-100%.
Ovvie le cause dell’aumento recente del debito in euro (e in dollari) dei Paesi africani: le conseguenze della crisi finanziaria globale e la diminuzione strutturale del prezzo delle materie prime.
Peraltro, molti investitori hanno iniziato a operare anche in Africa, visto il bassissimo livello degli interessi in Usa ed Europa.
L’Egitto è oggi il Paese più indebitato, con 25,5 miliardi di euro in totale.
Poi c’è il Sud-Africa, con 18,9 miliardi, la Nigeria con 11,2, il Ghana con 7,8 miliardi di Euro, la Costa d’Avorio con 7,2, l’Angola con 5 miliardi, il Kenya con 4,8 miliardi di euro, il Marocco con 4,5, il Senegal con 4 miliardi di Euro e, infine, lo Zambia con soli 3.
Gli analisti delle banche internazionali prevedono che, in futuro, il debito, in euro e in dollari, per i Paesi africani non sarà un problema.
Anzi, secondo la Banca Mondiale il rapporto debito-Pil dovrebbe cadere, in media, fino al 43% per tutti i maggiori Paesi africani.
La quota degli eurobond per il totale del debito è, nel caso peggiore, il Senegal, del 15,5%, mentre il migliore standard rimane la Tunisia, con 6,3 miliardi di euro di debito emessi tramite eurobond.
Altre variabili sono, come è facile immaginare, il costo del servizio del debito, che è raddoppiato in due anni fino a raggiungere il 10%, e l’aleatorietà del prezzo al barile dei mercati petroliferi, dato che tutti questi Paesi, salvo la Nigeria, sono importatori netti di petrolio.
Quindi, parlare di finanze “sostenibili” non lo si può fare di certo, anche se molti Paesi Ecowas hanno un rapporto debito-Pil che suscita, in questi giorni, le nostre invidie.
Poi c’è la stabilità del tasso di cambio, richiesta per l’entrata nell’Euro e che è, come sappiamo, uno dei primari criteri di “convergenza”.
Per l’associazione africana a quindici, si prevede una crescita media del Pil annuo del 6,3%, data l’espansione dell’estrazione petrolifera in Costa d’Avorio, Sierra Leone, Burkina Faso e Ghana, mentre la stabilità fiscale, in media di circa l’1,7% in più per il 2019, è accettabile.
Quindi, se applichiamo i criteri soliti dell’euro, la nuova moneta Eco appare quindi difficilissima da creare, ma non impossibile, almeno in tempi lunghi.
L’Ecowas ha caldeggiato il progetto della sua moneta unica molte volte: all’inizio, venne teorizzato addirittura nel 1983, poi ancora nel 2000, infine nel 2003 e oggi si parla, lo abbiamo visto, del 2020.
Certo, c’è già un accordo, tra i Paesi Ecowas, di abolizione dei permessi per i viaggi, e molti dei 15 carezzano progetti di integrazione economica e produttiva.
Ma, per quel che riguarda la convergenza per il deficit di bilancio, solo cinque Paesi, ovvero Capo Verde, Costa d’Avorio, Guinea, Senegal e Togo possono mantenere fede già oggi al programma della moneta unica africana, avendo un deficit di bilancio di non oltre il 4% e un tasso di inflazione non superiore al 5%.
Se quindi ci sarà convergenza in tempi ragionevoli, cosa che non possiamo certo escludere, è però improbabile che ciò avvenga entro il 2020.
Peraltro, i livelli di sviluppo tra i 15 sono molto differenti.
Diversi livelli di indebitamento, di tassi di interesse, di debito pubblico, sono quindi tali da non essere unificabili in breve tempo, visto che la quota della manifattura, in Africa, sta diminuendo e le economie che operano sulle materie prime sono, da sempre, particolarmente anelastiche.
La Nigeria, poi, vale da sola il 67% del Pil di tutto l’Ecowas, quindi l’Eco sarebbe, alla fine un naira allargato.
Con gli stessi problemi che abbiamo noi, che godiamo di un euro che è, di fatto, un marco tedesco allargato.
Si va, per quel che riguarda l’inflazione, da un tasso del 27% in Liberia all’11% in Nigeria, con Senegal e Costa d’Avorio che hanno una inflazione “europea” dell’1%.
IL FRANCO CFA
Certo, il franco Cfa, è uno strumento “coloniale” ma, comunque, ha garantito la stabilità monetaria e una forza negli scambi che, sicuramente, le varie monete delle ex-colonie francesi non avrebbero potuto raggiungere da sole. Il meccanismo del franco Cfa, lo ricordiamo, è che gli Stati aderenti devono depositare il 50%, oggi, delle loro riserve esterne in un conto presso il Tesoro francese.
È però da evitare il danno dell’euro, che è quello di non poter evitare gli shock asimmetrici. È una moneta, l’euro, che è soprattutto un accordo di cambi fissi. Si pensi poi qui agli aggiustamenti che la Nigeria ha messo in opera nel 2016; e peraltro le inflazioni dei vari Paesi Ecowas sono stabili ma non omogenee. Dall’11% all’1% dalla Nigeria al Senegal.
Tra il 2000 e il 2016, il Ghana è oscillato tra un tasso di inflazione del 16,92%. Il fatto è che tutti i Paesi Ecowas, e anche gli altri stati africani, sono importatori netti. I Paesi dell’ovest africano non commerciano, poi, primariamente tra di loro. Se le monete uniche sono fatte soprattutto per stimolare gli scambi, allora questo non è certo il caso.
Il franco Cfa era, comunque, un modo di rendere omogenei, geo-politicamente e finanziariamente, i Paesi ex-colonie francesi da unire contro la Nigeria, avamposto degli interessi britannici (e statunitensi) nell’Africa sub-sahariana. Nessuno dei governi Ecowas vuole inoltre trasferire potere finanziario o politico alla Nigeria, né Abuja ha alcun interesse a trasferire potere decisionale a Paesi alleati certo, ma molto più piccoli e meno globalmente importanti.
Si potrebbe integrare meglio l’area non con una moneta, evitando la pericolosa fretta dell’euro, ma con una serie di progetti infrastrutturali comuni, o con l’abolizione delle barriere tariffarie e non. Il maggior partner commerciale dell’Africa sub-sahariana, la UE, con cui certamente l’Eco lavorerebbe benissimo, ha oggi un interscambio con l’area Ecowas del 37,8% del totale. La Nigeria esporta solo il 2,3% negli altri partner africani e importa meno dello 0,5%. Ma, se la Eco vedrà la luce, ciò si dovrà ad un possibile ancoraggio allo yuan cinese.
Il che permetterebbe di evitare le eccessive oscillazioni, probabili per la nuova moneta, ma creerebbe una dipendenza delle economie africane dell’Ecowas, oltre a quanto è già accaduto, verso la finanza e i sistemi produttivi cinesi.
Certo, sarebbe un modo di ancorare definitivamente l’Africa all’economia cinese. Dal 2005 al 2018, gli investimenti cinesi sono aumentati ovunque, ma in Africa hanno totalizzato ben 125 miliardi di Usd. L’Africa è oggi il terzo obiettivo globale degli investimenti cinesi. Il 17% di tali investimenti da Pechino è stato rivolto alla Nigeria e ai suoi “vicini” dell’Ecowas, soprattutto per quanto riguarda le ferrovie e le altre infrastrutture.
Peraltro, la Cina, nel 1994, ha salvato con le sue iniezioni di liquidità i salari africani dalla svalutazione del franco Cfa, che aveva dimezzato tutti i redditi. Chi governa l’Africa controllerà la globalizzazione. L’India è ormai la seconda nazione a investire in Africa, dopo la Cina. Noi, in Ue, ci prendiamo i disastri della globalizzazione africana ma non gli utili.
Chi sbaglia paga. Non c’è stata una politica Ue che abbia “letto” l’Africa in modo intelligente, ma solo come punto di arrivo per “aiuti” sempre meno significativi. Quindi, sarà la Cina a piegare lo sviluppo economico africano alle proprie mire geostrategiche. Che offre, Pechino, tassi di interesse per i prestiti quasi sette volte minori dei mercati occidentali, che non ragionano mai in termini geopolitici, come invece dovrebbero fare.