L’uscita del presidente francese sull’Unione Politica dell’Europa (o dell’Eurozona? O di qualche cooperazione rafforzata, cioè di un “nucleo duro”?), da realizzare a passo di carica (entro due anni – sic!), ha colto tutti di sorpresa.
François Hollande non ha precisato i dettagli, ma è proprio in essi che sta il diavolo. Ciò mi ha convinto che non possa essere una proposta seria, ma una semplice boutade, una mossa per mettere al centro dell’attenzione – interna ed europea – la sua immagine, a dir poco sbiadita.
Buttata lì, come un sogno di mezza primavera, la battuta-proposta di Hollande è del tutto irrealistica, soprattutto in tempi così brevi. Lo è per vari motivi.
Primo, perché un’unione politica presuppone un’unanimità che non esiste neppure in campo economico-finanziario. Va poi preceduta, più che affiancata, da altre unioni: bancaria, economica e fiscale. Ma come fa un Paese con tasse del 50% a unirsi ad uno che abbia entrate fiscali del 35%? Volere tutto e subito rischia di bloccare quanto sarebbe forse possibile fare, beninteso dopo le elezioni tedesche del 22 settembre. Un progresso dell’integrazione è fattibile – non solo ora, ma anche in futuro – solo accettando le condizioni della Germania, tanto bene sostenute – non per egoismo, ma per i suoi legittimi interessi nazionali (ed elettorali) – dalla “Merkiavelli”.
La Cancelliera, con una tattica veramente fine, che avrebbe suscitato l’applauso del segretario fiorentino, dilaziona e riduce al minimo indispensabile il sostegno agli Stati in crisi, per evitarne il crollo, tanto dannoso per il suo Paese. Non intende cedere il timone, cioè la sua capacità di ricatto. Sa che è il solo modo per imporre ai Paesi dell’eurozona riforme strutturali coerenti con gli interessi e la logica tedesca. Potrebbe allentare la sua rigidità solo se confrontata con il concreto rischio che qualcuno faccia “saltare il banco”, cioè l’euro, da cui trae tanti vantaggi. Per ora non è così. Un “atterraggio morbido” dall’euro sarebbe molto difficile. Ma se non fosse concordato, provocherebbe la tempesta finanziaria perfetta”.
Troppi politici temono di autodistruggersi perché accusati di euroscetticismo. Solo un crollo delle economie reali e rivolte sociali su larga scala potrebbero convincerli del contrario. Il declino progressivo del “continente perduto” non impone riforme troppo impopolari, anche se necessarie. Permette di “salvarsi” con provvedimenti tampone, con la retorica delle riforme possibili. Oggi anche con l’attesa delle elezioni tedesche che non cambieranno nulla, ma forse irrigidiranno ancor più Berlino (specie in caso di affermazione del “partito dei professori”, l’Afd-Alternativa per la Germania).
Secondo. La crisi dell’euro ha allontanato i 17 Paesi dell’Eurozona dagli altri 10 dell’Ue. L’impatto della politica d’austerità aumenterà il divario esistente. Le sue conseguenze sociali hanno diminuito il consenso per l’Europa, vista da molti come parte del problema, non della sua soluzione. Se la crescita non riparte, è improbabile che i popoli europei accettino un maggior livello d’integrazione. Ogni “salto in avanti”, del tipo di quello di Hollande, farà sbattere il muso contro il muro referendario. Le esperienze al riguardo non sono incoraggianti. Per correre dietro alle fantasie di un’Unione politica immediata, per quanto essa sia auspicabile, non si riuscirà a fare quanto è possibile, cioè un programma simile a quello – che ritengo già molto ambizioso, se non al limite della temerarietà – contenuto nell’Appello del prof. Savona.
Terzo. Il contesto internazionale (leggasi gli Usa) non sono favorevoli a un’Ue ridotta all’Eurozona, senza l’Uk e senza i loro fedeli alleati dell’Est europeo. Tale Ue sarebbe dominata dalla Germania sempre più convergente su Mosca. Non per nulla, sull’altra sponda dell’Atlantico, l’“accelerata” di Hollande è stata commentata non solo con perplessità, ma anche con preoccupazione. Molti pensino che abbia abbracciato la tesi dell’Europa dei 200 Gau di Himmler, dato che pone al centro dell’Europa Politica l’asse franco-tedesco, cioè in pratica la subordinazione di Parigi a Berlino. Di quanto passa per le teste dei responsabili americani è prova l’entusiasmo di molti responsabili (e i contatti d’affari con Roberto Casaleggio!) dimostrato nei confronti di Beppe Grillo.
Il successo elettorale del M5S è stato salutato da molti in Usa come una sconfitta non tanto della politica d’austerità, quanto delle ambizioni di coloro che in Germania hanno riscoperto le radici tradizionali della geopolitica tedesca, da Tauroggen a Bismark a Rapallo. Ma la Germania non può fare da sola. Se è divenuta troppo grande per l’Europa, rimane troppo piccola per il mondo. Quindi, necessita di un’egemonia regionale. A Washington andrebbe bene, purché Berlino non si avvicinasse troppo a Mosca. Per i dettagli, rimando all’interessante articolo di Germano Dottori sull’ultimo numero di Limes.
A parte questo, quali riforme sarebbero necessarie per un’Unione politica? A parer mio, non è possibile attuarle in tempi rapidi. Sono possibili, in maniera progressiva solo in campo economico. Manca un popolo, una nazione, un’identità europea e partiti politici transnazionali europei. Ora come ora, anche un’unione “confederale leggera” sarebbe un attentato alla geografia e alla storia. L’attuale Ue è un’istituzione da tempo sereno. Se la situazione economica e sociale è turbolenta, la sicurezza geopolitica europea non impone l’unione. Ci pensa la tanto vituperata “mamma America”. L’unica soluzione forse fattibile consisterebbe nella creazione di un ministro dell’economia europeo (mandando caso mai a casa l’inutile Alto Rappresentante, Lady Ashton) e nel rafforzamento dei terms of reference della Bce. Al massimo, si potrebbe giungere a qualche forma di project bonds (gli eurobonds appartengono al futuribile, dato che toglierebbero alla Germania ogni potere di condizionamento per imporre le riforme e aumenterebbero il moral hazard per le “cicale”). La “Merkiavelli” non si trasformerà mai in una dama di carità! Se Hollande pensa di convincerla a “mollare” sugli eurobonds, con il miraggio di un’unione politica, vedrà sul Reno un “Nein” grosso come una grattacielo.
Ma quali riforme? Elezione diretta del Presidenti del Consiglio o della Commissione europea o di entrambi? Fusione delle due cariche? Referendum pan-europeo sull’abolizione del Consiglio e la sua trasformazione in una “camera alta”, aumentando i poteri al Parlamento? Modifica delle strutture troppo intergovernative della Commissione? Ma siamo matti a pensare di poterle attuare in tempi brevi? La sfiducia nella logica del rigore dell’“Ue tedesca” è grande. Non è però tale da impedire la bocciatura referendaria di riforme istituzionali più profonde. Per farla breve, la richiesta in tempi rapidi di una vera unione politica rischia di affondare anche l’unione bancaria e le iniziative d’attenuazione dell’austerità.
In conclusione, le riforme proposte dall’“Appello” sono quanto di più ottimistico possa essere realizzato per il salvataggio dell’Europa, oggi compromesso da una cura fallimentare per i paesi deboli. Questi hanno un’unica arma: la possibilità di premere sulla Germania non tanto con più o meno lamentose richieste di solidarietà, quanto con la predisposizione del “Piano B”. Esso dovrebbe prevedere un atterraggio per quanto possibile morbido dall’euro e il salvataggio del salvabile del pre-Maastricht, per non ridurre l’Ue a una semplice unione doganale.