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Teologia della liberazione o liberazione dalla teologia? L’analisi di Pedrizzi (Ucid)

La cosiddetta teologia della liberazione sembra aver acquisito da qualche anno a questa parte un vero e proprio diritto di cittadinanza nell’ambito della Chiesa e del mondo cattolico.

La prova ci viene fornita da un recente articolo pubblicato, come tutte le domenica, su Il Sole 24 Ore dal cardinale Gianfranco Ravasi in occasione del cinquantenario (1969-2019) della pubblicazione del volume “Hacia una teologia de la liberacion” (Verso una teologia della liberazione) del giovane teologo Gustavo Gutierrez, testo tradotto tre anni dopo dalle Edizioni Queriniana di Brescia nota per aver pubblicato e diffuso da noi vari libri dei teologi eretici Hans Kung e Edward Schillebeeckx.

Il cardinale nel suo articolo scrive che il sintagma teologia della liberazione “sarebbe diventato un vessillo sventolato in tutta l’America Latina e una sorta di incubo invece in certi ambiti ecclesiastici, a partire dalle Curia Romana”.

Le cose, però, non stanno proprio come le racconta il cardinale. Infatti Benedetto XVI, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina delle fede, affrontò il tema della teologia della liberazione, offrendo con due documenti “Libertatis nuntius” del 6 agosto 1984 e “Libertatis conscientia” del 22 marzo 1986, un determinante ed indispensabile contributo al suo contrasto e dando una risposta chiarissima ai dubbi dei molti. In tal modo venne incontro alle tante richieste e preghiere che erano salite da ogni parte del mondo ed in particolare dall’America Latina, che supplicavano interventi chiarificatori su questo scottante problema da parte del Magistero. Altro che “una sorta di incubo”, invece, in certi ambiti ecclesiastici, a partire dalla Curia Romana”, che assolse niente altro che al suo compito di difendere l’ortodossia della fede cattolica.

Si trattò di una risposta estremamente chiara ed esauriente, nella quale fu esaminato compiutamente quel fenomeno straordinariamente complesso, che è e resta la teologia della liberazione, nel cui ambito alcuni teologi “hanno fatto propria la opzione fondamentale marxista”. In quel senso – venne rilevato – la teologia della liberazione diventava un pericolo fondamentale per la fede della Chiesa, anche se non è più tale oggi, come scrive il cardinale Ravasi “la riflessione di Gutierrez rimane uno snodo ancor vivo nella teologia e nella pastorale, come è attestato dal magistero di papa Francesco”.

L’allora cardinale Ratzinger esaminava, innanzitutto, la situazione venutasi a creare dopo il Concilio Vaticano II, e rilevava che; a) “si creò l’opinione che la tradizione teologica esistente fino ad allora non era più accettabile e che di conseguenza si doveva cercare, a partire dalla Scrittura e dai segni dei tempi, orientamenti teologici e spirituali totalmente nuovi; b) l’idea di apertura al mondo si trasformò spesso in una fede ingenua nelle scienze… La psicologia, la sociologia e l’interpretazione marxista della storia furono considerate come scientificamente sicure..; c) la critica della tradizione da parte della esegesi evangelica moderna, specialmente di Bultman e della sua scuola, divenne una istanza teologica inamovibile..”. A tale situazione ecclesiale si aggiunse “il nuovo clima filosofico degli anni sessanta. L’analisi marxista della storia e della società fu considerata, nel frattempo, come l’unica a carattere scientifico. Ciò significava che il mondo veniva interpretato alla luce dello schema della lotta di classe e che l’unica scelta possibile era quella tra capitalismo e marxismo. Significava, inoltre che tutta la realtà è politica e che deve essere giustificata politicamente. Il concetto biblico del povero offre il punto di partenza per la confusione tra l’immagine biblica della storia e la dialettica marxista”.

“Se fino ad ora la Chiesa, cioè la Chiesa cattolica nella sua totalità che, trascendendo tempo e spazio, ha abbracciato i laici (sensum fidei) e la gerarchia (magistero) era stata l’istanza ermeneutica fondamentale oggi lo è diventato la comunidad… Popolo diventa così un concetto opposto a quello  di gerarchia e in antitesi a tutte le istituzioni indicate come forze dell’oppressione. Infine è popolo chi partecipa alla lotta di classe; la Iglesia popular si pone in opposizione alla Chiesa gerarchica”.

Emergeva, come si vede, una nuova interpretazione del cristianesimo, nella quale secondo il prefetto del tempo della Congregazione per la Dottrina della Fede, la “fede” viene sostituita dalla “fedeltà alla storia” (Sobrino); “la speranza” diventa la “fiducia nel futuro” e quindi nella storia delle classi; “l’amore” coincide con “l’opzione per la lotta di classe”; la verità si socializza nella storia e nella prassi: solo l’azione diventa ed è la verità.

Ciononostante il cardinale Ravasi a cinquant’anni dalla pubblicazione di quel libro scrive che “in realtà erano molti anche gli aspetti positivi, a partire proprio dal concetto di libertà che non può essere considerato solo in astratto ma nel suo esercizio concreto all’interno dei processi storici e socio-culturali, trasformandosi così in ‘liberazione’”.

Eppure questa nuova teoria fin dall’inizio fu ben altro dal Cristianesimo secondo il Cardinale Ratzinger che si poneva e ci poneva un interrogativo: “cosa si possa e si debba fare” di fronte a questo fenomeno cosi devastante della “teologia della liberazione”.

La risposta non poteva che partire da un’analisi della genesi della “teologia della liberazione”, per poi prendere in considerazione alcune situazioni locali ove più penetrante era stata l’attività dei fautori di questa nuova teologia, infine individuare i possibili rimedi e le soluzioni più praticabili.

GENESI E STORIA DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

Questa teologia nacque nell’America Latina intorno al 1960 con il nome di “teologia dello sviluppo” sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle iniziative panamericane di John Kennedy, che andava promettendo la soluzione di tutti i problemi che allora come oggi continuano ad assillare il continente latinoamericano. All’entusiasmo, però, subentrò lo scoraggiamento e quindi, da parte di tutti coloro che si erano illusi, venne imboccata la strada della rivoluzione armata: sono i tempi che Fidel Castro esporta la sua rivoluzione con Che Guevara, e che Camillo Torres inizia la guerra in Colombia (1965). A Medelin nel 1968 nasceva, nonostante le raccomandazioni di Paolo VI, che si reca personalmente in Colombia, la nuova teologia che prende, appunto, il nome “teologia della liberazione” e che, per certi versi, si ispirava ad alcuni modelli europei come quello della “teologia politica” di J. B. Metz. Nel continente latinoamericano principali sostenitori erano alcuni protestanti locali, come Jesè Miguze Bonino, ed alcuni cattolici come Gustavo Gutierrez (oggi – egli scriveva – per forgiare una società giusta si deve passare necessariamente per la partecipazione cosciente ed attiva della lotta di classe); come Hassmann, prima spretato e poi diventato pastore protestante (quel che veramente importa – diceva – è creare le basi per una chiesa nuova, autrice della liberazione degli oppressi); come Juan Luis Segundo, Leonardo e Clodovis Boff (negarono i rischi ed i pericoli sottolineati dall’allora cardinale Ratzinger); come Raul Vidales (una chiesa popolare sarà necessariamente – proclamava – sovversiva e pericolosa per l’ordine stabilito, non solo civile ma anche religioso).

Dal 1968 con pubblicazioni, associazioni, riunioni, gruppi, i fautori di questa teologia  diffusero non solo nelle chiese latinoamericane, ma anche in Africa, nelle Filippine, in India, nello Sri Lanka, a Taiwan e persino, in alcuni ambienti europei, le nuove idee che, in verità, non trovarono nella gerarchia molti contraddittori ed oppositori, con un’abbondanza di mezzi materiali e finanziari “il che lascia molte domande senza risposte”, come rilevava l’arcivescovo Cabral Duarte, arcivescovo di Aracajù in Brasile, nel corso del sinodo che si svolse nel 1983, sul tema “La riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa”.

Bisogna, per completezza, anche aggiungere che se nei primi tempi, quando si parlava di teologia della liberazione, si avevano di vista diverse correnti di questo nuovo corso pastorale: quella ispirata al Vangelo, alle sue esigenze ed alla sua purezza; quella sociologica ma pur sempre distante dalla teoria marxista; quella, infine, dichiaratamente marxista. E proprio recentemente, quando ha accettato il Cristo con falce e martello di padre Espiral durante il suo viaggio in Bolivia,  Papa Bergoglio ha ricordato che in quel tempo “la Teologia della liberazione aveva tanti filoni diversi, uno di essi usava l’analisi marxista della realtà”. Oggi, però, quando si parla di teologia della liberazione, pur con le debite eccezioni, tutti intendono che si tratta di quel complesso di idee, schemi e canoni interpretativi proprio e solo della concezione marxista.

Risulta evidente, infatti, contrariamente alle parole d’ordine che, ancora oggi, si fanno circolare anche nel mondo cattolico sul conto della teologia della liberazione, che: non si trattava di un fenomeno religioso spontaneo, perché, se così fosse stato, sarebbe stato diverso da paese a paese ed avrebbe assunto caratteristiche diverse le une dalle altre a seconda delle situazioni politiche, economiche e sociali locali; non nasceva da esigenze religiose e spirituali della cosiddetta base, in quanto la diffusione contemporanea, simultanea ed “a comando” di certi slogan e di certi leit-motiv univoci presupponeva, viceversa, una rete capillare di operatori pastorali, di attivisti, di organizzazioni e di mezzi finanziari di notevole entità;

non attecchì, esclusivamente in zone agricole e tra le popolazioni indie o sottosviluppate, ma viceversa con più virulenza nelle periferie dei grossi centri urbani, tra il proletariato più sindacalizzato e politicizzato.

CONCLUSIONI

In conclusione i due documenti della Congregazione per la Dottrina delle Fede del 1984 e del 1986, guidata allora dal cardinale Joseph Ratzinger, quando ne era Prefetto, rappresentano un richiamo, ancora oggi assai valido ed attuale, alla responsabilità dell’episcopato ed un invito a tutti quei cattolici, che continuano a sottovalutare i pericoli di questa teologia e giungono a riproporre la figura di Gustavo Gutierrez, il teologo peruviano come un punto di riferimento, “per il rigore e il calore del suo pensiero che è stato capace – come scrive il Cardinale Ravasi – di evitare certe derive socio-politiche, senza però edulcorare l’incidenza concreta della sua visione. Essa si basa, infatti, su una liberazione “integrale” (sic!) perché compatta e unitaria è la persona umana e, quindi, la teologia esige di essere sempre incarnata e contestualizzata”.



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