Parlando del primo allunaggio, la tentazione di iniziare dal banale c’è, ed è forte. Così, anche questo articolo, come altri, inizia con la citatissima frase di Neil Armstrong: “One small step for a man, one giant leap for mankind”, un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità. Ma è un giusto tributo ai protagonisti.
Meno banale è, invece, ricordare le parole di Paolo VI all’Angelus: “La scienza e la tecnica vi si manifestano in un modo così incomparabile, così complesso, così audace da segnare il vertice delle loro conquiste e da lasciarne presagire altre, di cui perfino l’immaginazione non riesce ora a sognare (….). Se poi si considera l’organizzazione di cervelli, di attività, di strumenti, di mezzi economici, con tutti gli studi, gli esperimenti e i tentativi che l’impresa richiede, l’ammirazione diventa riflessione. E la riflessione si curva sull’uomo, sul mondo, sulla civiltà, da cui scaturiscono novità di tale sapienza e potenza”. Il Santo Padre pensava a un’epoca di pace. Ma non sarà così.
Era il 20 luglio 1969. L’allunaggio è avvenuto mentre da noi era notte fonda. In quel momento sulla faccia della terra si combattevano tre guerre, in Vietnam, in Africa e in Medio Oriente. Se ne era appena aggiunta un quarta, tra Salvador e Honduras. Poi c’era quella che stavamo combattendo anche noi della Nato, la cosiddetta Guerra Fredda. Quel giorno compivo 32 anni. Ero in servizio alla base di Cameri, quale capo sezione operazioni e pilota pronto al combattimento del XXI Gruppo caccia intercettori, su F-104. Tempi duri. Montavamo d’allarme per 24 ore a giorni alterni con due coppie, una pronta a decollare entro 5 minuti e l’altra in 30 minuti. Gli “scramble” reali, con missili già armati e corsa supersonica in direzione del confine orientale, erano all’ordine del giorno.
A Cameri, in quel periodo, eravamo solamente dodici piloti preparati a questo, ma era anche necessario addestrare i più giovani, curare la preparazione alle valutazioni tattiche da parte della Nato, molto fiscali, e tanto altro ancora. Quella notte ero a casa, per una volta fuori dai turni. Mentre Paola e i tre figli erano già crollati dal sonno, io resistevo a oltranza davanti al televisore, con Tito Stagno a tutto schermo. Ma dopo il felice epilogo non sono più riuscito a chiudere occhio. Pensavo alla “nostra” Guerra Fredda, quella di ogni giorno, nella quale si era ormai inserita la corsa alla Luna e allo Spazio delle due grandi potenze. Con l’evento di questa notte, riflettevo, tutto l’Occidente ha guadagnato parecchi punti. Ora che accadrà?
In realtà, la corsa allo Spazio si era inserita nella Guerra Fredda fin dall’inizio. Nel 1945 gli Stati Uniti, anticipando i sovietici, avevano trasferito in America lo scienziato Von Braun, padre della V-2. Per Spazio e missili era il solo riferimento. Questo, insieme alla maggiore disponibilità di risorse, aveva convinto gli Stati Uniti di essere in posizione di netto vantaggio. Ma non era vero, e tre intollerabili schiaffi arrivavano in rapida successione: il lancio dello Sputnik, l’avventura (letale) della cagnetta Laika e il temerario volo in orbita del maggiore Yuri Gagarin.
Occorreva reagire con qualcosa di straordinario: questo era stato l’ordine del presidente Kennedy, che in sette anni aveva portato al primo allunaggio. Ormai la Guerra Fredda era anche nello Spazio, e negli anni successivi il tentativo di umiliare l’Unione Sovietica, che pur cercava fieramente di competere, alla lunga ebbe successo. Per gli Usa Robert Nixon è ancora oggi “il presidente della Luna”, visto che tutti gli allunaggi, dall’Apollo 11 fino all’Apollo 17 (solo l’Apollo 13 fu costretto ad abortire) sono avvenuti nel corso del suo mandato. La superiorità americana era ormai fuori discussione, tanto che gli Usa, interrompendo le esplorazioni lunari, potevano riprendere i loro studi sugli spazioplani, rendendo presto operativo il primo Space Shuttle. I Sovietici, in perpetuo inseguimento, con un inutile sforzo progettavano e costruivano il fallito vettore aerodinamico Buran, che oggi, senza aver mai volato, fa triste mostra di sé un hangar-museo di Baikonur.
Dopo i successi delle missioni lunari americane, l’indebolimento della capacità progettuale ed economica sovietica cominciava ad essere evidente, tanto che negli anni ottanta Ronald Reagan decideva di dare la mazzata finale. Con l’applicazione dell’omonima dottrina (Reaganomics) e le attività per la realizzazione del cosiddetto Scudo Spaziale, gli Usa hanno costretto l’Urss a logorarsi economicamente con vani inseguimenti tecnologici, tanto da dare forfait in pochi anni. La conseguenza quasi immediata, ma non da tutti prevista, è stata il crollo del regime, assieme al muro di Berlino ed a tutto il Patto di Varsavia. Successivamente, con Gorbachev, è iniziata una cauta collaborazione.
Oggi, sotto la spinta di Donald Trump, dopo cinquant’anni si progetta di ritornare sulla Luna. Ma in modo diverso: l’idea è di raggiungerla e abitarla, per utilizzarne le risorse e creare presupposti utili per il progetto Marte. Ma a Houston c’è un problema: nel nuovo mondo bipolare questa volta è la Cina, non più la Russia, a farsi avanti per competere.