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La Russia e il ritorno di Stalin? Lo spiega Civiltà Cattolica

C’è un giorno nella storia recente della Federazione Russa che non c’è stato raccontato come avrebbe dovuto. È il 19 dicembre 2017, che potremmo definire il giorno dell’epifania russa, non fosse che tutti sappiamo che le festività del Natale nel calendario giuliano arrivano pochi giorni dopo e non pochi giorni prima rispetto al nostro calendario. Ma quel 19 dicembre ha visto un’interessantissima epifania russa, neanche tanto difficile da scorgere e riconoscere perché la stella cometa era un’intervista a Alexander Bortnikov, direttore dei Servizi di sicurezza della Federazione russa (Fsb, i Servizi segreti russi) rilasciata al caporedattore del giornale ufficiale del governo russo Rossiyskaya Gazeta. Di quell’importantissima intervista i giornali occidentali hanno notato solo i passaggi relativi alla lotta al terrorismo di matrice islamista, ma ora, grazie alla penna del gesuita Vladimir Pachkov veniamo a sapere e capire molto. L’articolo, davvero importante, compare nella monografia dedicata alla Russia da La Civiltà Cattolica nella sua collana “Accènti”.

Un volume che esce oggi, scelta di sorprendente attualità. L’articolo in questione è solo uno dei tanti che inquadrano la Russia moderna, e parte da questa cruciale intervista nella quale Bortnikov sembra capovolgere la famosa relazione di Kruscev al XX congresso del Pcus, quella sul culto della personalità di Stalin e le sue conseguenze.

Pachkov ricorda che l’epoca della destalinizzazione era presto diventata l’epoca del silenzio, tutto il periodo del lungo regno di Breznev ha visto solo silenzio per non criticare il passato e quindi se stessi. La denuncia dei crimini staliniani sarebbe tornata solo con Gorbacev. E ora? Ora, scrive il padre gesuita, “diventa possibile che l’uccisione di milioni di cittadini innocenti di questo Paese, compiuta dal regime comunista con l’aiuto dei suoi Servizi segreti, venga presentata come qualcosa di positivo, o per lo meno come necessaria nelle circostanze particolari del tempo”. L’autore cita un articolo di Alexandr Glotz intitolato “gli eredi della Ceka”, e afferma:  “La cosa peggiore di questa intervista non è, secondo Golz, il fatto che Bortnikov ripeta le medesime spiegazioni usate dai criminali dell’era sovietica, ma il fatto che il direttore dei Fsb, organismo che dovrebbe avere la responsabilità di difendere il diritto, cerchi di giustificare le perversioni della giustizia e i crimini come ‘necessità storica’. È piuttosto sorprendente che nell’organizzazione nata come Čeka e che oggi si chiama Fsb il rispetto della legge e del diritto non siano una priorità. Bortnikov elogia i provvedimenti dei Fsb attuali, non solo quelli diretti contro il terrore e il crimine, ma anche quelli che hanno portato alla chiusura di oltre 120 organizzazioni internazionali e non governative, che sarebbero uno strumento dei Servizi segreti stranieri”.

Siccome l’intervista dello stretto collaboratore del presidente Putin è stata rilasciata a ridosso dell’anniversario della fondazione della Ceka nessuno può escludere che la sua evidenza sia stata voluta per far intendere che la storia può ripetersi. Ma quale storia può ripetersi e perché potrebbe ripetersi? Questa è probabilmente la parte più interessante del saggio di padre Pachkov, perché riguarda l’idea di Stato e le colpe dei liberali, artefici del loro male, in Russia come altrove.

Il saggio, davvero importante, ricorda alcuni passaggi cruciali della storia, come la costruzione  della vittoria della Patria, cioè “di tutti”, contro Hitler, celebrazione sconosciuta in epoca staliniana, e divenuta importantissima proprio per ricreare un nesso tra il regime e il popolo. Il silenzio calato su Stalin facilitò l’impresa del nuovo gruppo dirigente del Pcus. Ciò chiarito, e chiarito che manca per questo una piena consapevolezza storica, si arriva ad individuare la vera ripetizione possibile: “Ciò che ora il capo dei Fsb descrive come una necessità, e che giustifica il terrore di Stato, non è più la lotta di classe o la ragione dei partiti, ma la lotta contro i nemici dello Stato, quali che siano. Tutto ciò che minaccia l’esistenza e l’interesse dello Stato può e deve essere combattuto, anche con l’uso di una violenza estrema che non si basa su nessuna legge, ma solo sulla necessità. Questo è molto significativo: ciò che di fatto conta è la disponibilità a usare la violenza. Le cause che possono giustificarla sono varie: la lotta di classe, ma anche semplicemente la necessità di conservare la stabilità politica”.

Eccoci dunque al mito dei moderni regimi, sovente padroni o padrini dei terrorismi: la stabilità. Il terrorismo è sempre più spesso la giustificazione, nel nome della stabilità, delle più efferate violenze. Ma è la concezione dello Stato quella che fa la differenza. Lo Stato non è dei cittadini, il suo benessere non è nel loro benessere, bensì il loro benessere e nella sua stabilità. “Quando dunque il direttore dei Fsb parla del ruolo positivo della polizia segreta bolscevica nel soffocare gli ‘eccessi’ della violenza dell’estrema sinistra, che era al limite del caos e rappresentava una minaccia per lo Stato bolscevico, dimentica che questo tipo di violenza è stato generato e incoraggiato dai fondatori di quello Stato. In realtà, bisognerebbe distinguere fra i tanti tentativi dello Stato di dare un senso a molto – se non a tutto – di quanto è avvenuto nel passato della storia della Russia (anche quando essa era parte dell’Unione Sovietica) e il tentativo dello Stato di purificare e rivalutare alcuni avvenimenti (incluso il terrore in nome dello Stato) al fine di giustificare le misure repressive di oggi”.

Ma i russi sono masochisti? Chi, se non un masochista, potrebbe sostenere una re-stalinizzazione? Questa è la domanda conclusiva che pone con grande acume Pachkov e che non può essere elusa pena il rischio di sentirsi dire che allora lo stalinismo è stato un bene e che propaganda è quella che lo nega, non il contrario. E la sua risposta, da leggere per esteso, può essere presentata così. Detto che la piena consapevolezza del passato non c’era e non c’è anche per la scelta del silenzio su Stalin e i suoi crimini operata dal Pcus in epoca brezneviana, la seconda destalinizzazione, quella degli ultimi anni Ottanta operata da Gorbacev, ha presto portato al disordine e alla miseria generati dalle élite liberali del dopo-Gorbacev. Mentre pochi si arricchivano molti si impoverivano ulteriormente, nasceva un capitalismo predatore, il Paese era nel caos e la gente cominciava a parlare di Stalin come il simbolo di un passato fatto di stabilità e di successi internazionali. La Russia era divenuta una potenza stabile e temuta nel mondo. Non è quello che accade oggi? Stabilità e potenza non stanno tornando un felice connubio? È la tesi che di fatto sostengono Ioann Snycëv e i suoi seguaci nel libro “La Santa Russia e il regno del drago”. Si tratta di un approccio storico-civile alla storia: dimenticandosi milioni di vittime si può dire che la massima fioritura russa si è avuta con Stalin. Un altro neo-stalinismo è quello diffuso tra gli anziani: i selvaggi anni Novanta hanno cancellato l’orrore del passato e fatto di Stalin un simbolo di ordine, quella che in fasi del genere conta sempre di più. Padre Pachkov conclude così: “La cosa migliore per combattere il neo-stalinismo e ogni altra forma di nostalgia del totalitarismo è mostrare che l’ordine, la stabilità e la giustizia possono esistere anche in uno Stato liberale che rispetta i diritti dei suoi cittadini ed è al loro servizio”. Ai liberali affrancarsi da certe dottrine economiche e dimostrarlo.



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