Come si sta evolvendo la medicina e come si sta adattando ai grandi cambiamenti della società? Come internalizza la tecnologia, e le infinite prospettive che questa offre al settore farmaceutico e sanitario? E come fare, affinché le opportunità non si trasformino in elementi potenzialmente critici? Ne abbiamo parlato con Luigi Ripamonti, direttore del Corriere Salute, in occasione del progetto “In Scienza e Coscienza” nato dalla collaborazione fra Fondazione Roche e Formiche con l’obiettivo di interrogarsi – e interrogarci – sul dibattito in merito alla libertà prescrittiva del medico e ai vincoli economici imposti dalla limitatezza delle risorse e dalla necessità di Regioni e aziende ospedaliere di gestire il contenimento della spesa sanitaria: come bilanciare le migliori cure con la sostenibilità finanziaria?
Libertà prescrittiva del medico: quali limiti finanziari e quale possibile bilanciamento fra universalità del SSN e vincoli finanziari?
Il principio di universalità del Servizio sanitario nazionale deve essere una priorità. È ovvio che la libertà prescrittiva deve esistere nella misura in cui consente al medico di dare la migliore terapia possibile. La libertà prescrittiva di un farmaco che – per fare un esempio – allunga di una settimana la vita di un paziente malato di tumore, e che costa al sistema sanitario così tanto da dover negare cure essenziali a qualcun altro, va però prima sottoposta al giudizio della comunità scientifica e a una valutazione delle istituzioni preposte a stabilirne la disponibilità. Se la libertà prescrittiva diventa anarchia prescrittiva si entra in un territorio molto rischioso.
Sappiamo che negli ultimi anni l’innovazione in campo sanitario ha fatto passi da gigante. Purtroppo, però, non sempre le cure innovative sono disponibili, a causa degli elevati costi e della limitatezza delle risorse. Secondo lei, qual è la soluzione auspicabile per garantire ai cittadini le migliori cure possibili?
L’Italia è un Paese in cui le cure innovative arrivano con po’ di ritardo rispetto ad altre nazioni. Uno dei motivi è che la nostra agenzia regolatoria ha una politica di trattativa rigorosa con le aziende produttrici di queste terapie, il cui obiettivo è strappare il prezzo migliore possibile per il sistema sanitario nazionale. Si tratta di trovare un equilibrio non sempre facile: una terapia innovativa che fa la differenza tra la vita e la morte deve essere approvata il prima possibile senza sconti nei confronti di chi dovesse essere responsabile di un ritardo per inadempienze al proprio incarico o per chiara incompetenza. Il che, però, non significa che non sia legittima una trattativa anche aspra che abbia come obiettivo la sostenibilità finalizzata a una disponibilità universale.
Parliamo ora di medicina di precisione e di medicina predittiva: sappiamo che queste ultime consentono di “scoprire” con largo anticipo eventuali patologie, o quantomeno la propensione al loro insorgere. Perché non vengono utilizzate in maniera massiva, soprattutto oggi che il loro costo è sceso vertiginosamente? Siamo certi che non avvenga proprio perché il medico sa già che non avrebbe poi modo di prescrivere a tutti la terapia più efficace?
In questo momento ci si riempie la bocca con il termine “medicina di precisione”, soprattutto da quando Obama ha dato il suo endorsement a un’iniziativa per medicina personalizzata o di precisione (i termini sono spesso usati in maniera intercambiabile). La medicina personalizzata un bravo medico la applica sempre quando cerca di dare la terapia migliore al suo paziente. La medicina di precisione basata – ad esempio – su marker genetici, sta però cambiando profondamente lo scenario e può essere utile soprattutto in termini di prevenzione. Certo l’uso di marker predittivi quando non siano disponibili terapie apre problemi gravi. È il caso di malattie come l’Alzheimer. Che effetto potrebbe sortire la notizia che si incorrerà molto probabilmente nella malattia se non c’è una cura? Forse una pianificazione del tempo di “lucidità” rimasto ma magari anche un gesto disperato a fronte di una probabilità.
Una domanda un po’ scomoda. Sappiamo che le migliori terapie innovative non possono essere destinate a tutti, e talune di queste vengono prescritte solo in caso di elevata probabilità di risposta positiva. Come decide il medico chi includere e chi escludere e come si concilia questo con l’etica medica e il giuramento di Ippocrate?
Il marker può aiutare il medico a decidere chi includere e chi escludere da una determinata terapia. A guidare, al solito, devono essere criteri di efficacia e sostenibilità.
I big data stanno cambiando il modo in cui viene gestita l’assistenza sanitaria, consentendo una rivoluzione nella gestione della conoscenza e nell’analisi dei dati. Qual è la sua opinione in merito? Grande opportunità o promessa mancata? Più vantaggi o più pericoli?
I big data rappresentano un enorme rischio. La confluenza di dati da più fonti che poi vengono inseriti in un unico insieme può indirizzare verso strade errate in campo medico. Il modo di raccoglierli e gestirli ne condiziona l’esito. Se io raccolgo su Internet, ad esempio, informazioni sanitarie su persone diverse con criteri diversi potrei ritrovarmi con una massa critica notevole di informazioni non omogenee che, se gestite male, potrebbero indirizzare verso conclusioni fuorvianti. I big data, se non sono gestiti con grande attenzione, sapienza e rigore rischiano di compromettere l’attendibilità della ricerca. Senza contare che questi dati possono diventare parte di algoritmi che daranno indicazioni prive di fondamento ma capaci di condizionare scelte importanti su cui potremmo perdere il controllo, fra cui, per esempio, quelle in campo sanitario. Servono criteri rigorosi perché siamo di fronte a un grande rischio.
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