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La Cina accetta la proposta di Trump per dividersi la sicurezza di Hormuz?

L’ambasciatore cinese negli Emirati Arabi Uniti, Ni Jian, ha detto ieri che la Cina potrebbe partecipare alle attività di scorta alle petroliere attraverso lo Stretto di Hormuz e il Golfo Persico, acconsentendo a una richiesta americana per far fronte a questioni di sicurezza. Nell’area si sono verificati diversi incidenti (per così dire) negli ultimi tre mesi: sei petroliere sono state sabotate tra maggio e giugno, due — una inglese e un’altra irachena — sequestrate dall’Iran. Reazione dei Pasdaran alle tensioni attorno all’accordo sul nucleare del 2015, semi-saltato dopo il ritiro unilaterale americano dall’intesa e con gli altri firmatari (Cina, Russia e paesi europei) non in grado di far fronte alle esigenze per preservarlo.

“Se ci sarà una situazione molto pericolosa, prenderemo in considerazione la possibilità che la nostra marina scorti le nostre navi commerciali”, ha detto l’ambasciatore Ni alla Reuters: “Stiamo studiando la proposta degli Stati Uniti sugli accordi di scorta nel Golfo”. Ed è significativo che il diplomatico del Dragone abbia parlato da Abu Dhabi, la Piccola Sparta che negli ultimi anni si è costruita — usando la sponda saudita — un ruolo prominente e assertivo nelle dinamiche regionali. Gli emiratini sono uno dei luoghi del pensiero ideologico e geopolitico contro Teheran, ma davanti al rischio di escalation che la massima pressione americana ha creato si sono mossi per disinnescare il detonatore.

Hanno usato con circospezione le informazioni di intelligence statunitense sul coinvolgimento dei Guardiani iraniani nei sabotaggi di maggio (avvenuti davanti al porto di Fajarah), tenendo un profilo sostanzialmente basso. Addirittura successivamente, con l’infiammarsi della crisi (passata apertamente dal tavolo sul nucleare al traffico delle petroliere), hanno avuto dei colloqui con gli iraniani per parlare di come gestire in maniera cooperata la sicurezza a Hormuz, acque delicatissime condivise dai due paesi e dall’Oman (gestirne la sicurezza in ottica sovranista, ossia senza ingerenze straniere, è quello che rivendica l’Iran). Ora arriva il contatto cinese via Abu Dhabi, che ha ottime relazioni sia con Washington che con Pechino e la forza economica per mantenersi, momentaneamente, in equilibrio tra i due giganti anche in questa complicata fase di confronto globale.

Da settimane, Washington sta facendo pressioni su altre nazioni per unirsi a una coalizione di sicurezza marittima in questo momento di forti tensioni con l’Iran, ma attualmente solo il Regno Unito ha aderito, mentre Israele dovrebbe contribuire con la condivisione di intelligence specifica. La Germania ha risposto negativamente all’invito statunitense, proponendo una forza di sicurezza a targa europea (che per Berlino sarebbe meno invisa e invasiva) mentre la Francia aveva inizialmente appoggiato una proposta inglese simile a quella tirata in ballo dai tedeschi. Tra i paesini in fase di riflessione è data anche l’Italia.

Il presidente Donald Trump aveva dichiarato in un tweet del 24 giugno che Cina, Giappone e altri “dovrebbero proteggere le proprie navi” nella regione del Golfo, dove la Quinta flotta della Marina degli Stati Uniti ha sede in Bahrain. Non era chiaro in quel momento se Washington avesse fatto una richiesta ufficiale a Pechino, che affronta il dossier mediorientale con delicatezza per via dei suoi stretti legami energetici con l’Iran e l’Arabia Saudita.

La Cina ha tradizionalmente svolto un piccolo ruolo nei conflitti o nella diplomazia in Medio Oriente, nonostante abbia fatto affidamento sul petrolio regionale, ma ha aumentato il suo profilo sotto il presidente Xi Jinping, fa notare la Reuters. “Abbiamo la posizione che tutte le controversie debbano essere risolte con mezzi pacifici e discussioni politiche, non […] azioni militari”, ha detto l’ambasciatore Ni.

Un quadro allargato sull’interessamento cinese a Hormuz: Pechino ha già una base militare a Gibuti, e vorrebbe aprirne un’altra, navale, a Gwadar, in Pakistan. Appoggiare gli Usa nel Golfo potrebbe accelerare il processo di espansione militare pakistano del Dragone, che otterrebbe con uno sforzo ridotto la possibilità di aprirsi un’altra bocca sull’Oceano Indiano (che, se si considerano un progetto simile in Cambogia e quello già esistente a Gibuti diventerebbe completamente avvolto dalle forze armate del Regno di Mezzo).

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