“Negli ultimi due giorni gli aerei del generale Haftar hanno colpito anche l’aeroporto di Misurata, dove si trova la base italiana. Si tratta di attacchi molto precisi, che non hanno coinvolto in alcun modo gli italiani e il nostro ospedale e tale precisione indica che certamente non siamo noi l’obiettivo degli attacchi. Noi non siamo un target per nessuna delle due fazioni”. Commenta così la ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, la situazione delicata che s’è creata attorno all’aeroporto di Misurata.
Nell’area dello scalo della città libica che difende il governo Onu di Tripoli dall’aggressione di Haftar, è presente un ospedale militare italiano che coinvolge un totale di 250 unità tra personale medico e addetti alla sicurezza e che fornisce assistenza qualificata ai civili locali. L’aeroporto è diventato uno dei centri martellati dalle aviazioni collegate al signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar — “aviazioni collegate” è una locuzione usata perché le forze aeree di Haftar sono gestite anche da droni Uae operati direttamente dagli emiratini (sono questi Wing Loong di fabbricazione che hanno bombardato a Misurata).
Le parole di Trenta sembrano incredibili, ma si allineano con una politica dello struzzo che vede l’Italia nascondersi su certi dossier delicati. L’aeroporto di Misurata, così come quello Mitiga di Tripoli, sono a doppio uso (civile e militare) e gli attacchi aerei mettono in pericolo i civili — ieri l’ambasciata statunitense in Libia ha chiesto di fermare i bombardamenti per questa ragione, ma ciò nonostante nella prime ore della mattina l’aviazione haftariana ha fatto cadere una pioggia di missili sullo scalo tripolino. Ma la posizione presa dall’Italia dimostra anche una scarsa comprensione della situazione. Innanzitutto gli attacchi all’aeroporto di Misurata non sono questione degli “ultimi due giorni”, come dice Trenta, ma il primo si è verificato già nella notte tra il 26 e il 27 luglio.
Poi va sottolineato che sebbene Haftar non abbia (per ora?) messo gli italiani tra gli obiettivi specifici, le bombe cadono a pochi centinaia di metri dall’ospedale del Miasit (acronimo della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia, nata per fornire aiuti sanitari ai miliziani misuratini che hanno sconfitto il Califfato di Sirte insieme agli americani, che tuttora sono acquartierati anche loro a Misurata, e un tempo erano insieme a piccoli team di forze speciali inglesi).
Val la pena allora ricordare anche che sono continue le sparate propagandistiche che l’autoproclamato Feldmaresciallo dell’Est lancia contro l’Italia, partendo proprio dalla nostra presenza a Misurata. E se qualcosa cambiasse? Se dai proclami si passasse all’azione? Il governo correrebbe a prendere decisioni d’emergenza quando per modificare gli assetti in preda all’impatto emotivo di un bombardamento subito? Sarebbe opportuno magari procedere d’anticipo.
C’è una politica strabica in Italia, dove da una parte il vicepremier Salvini denuncia le operazioni di Haftar, dall’altra il premier Conte lo definisce un interlocutore. E in mezzo i militari italiani. Essere all’interno del perimetro bombardato da Haftar, aggiunge un rischio ulteriore legato al modus operandi solito dell’ufficiale ribelle, che spesso ha compiuto attacchi senza troppa discriminazione dei bersagli e altre volte ha commesso errori di targeting.
Ossia, gli italiani non sono al sicuro, ma il governo italiano non prende una posizione chiara. Piuttosto Trenta s’è trovata a difendere la precisione degli haftariani come se fosse una faccenda politica — da notare che la presenza italiana a Misurata, ampiamente nota e identificata, era quella che si credeva potesse essere un deterrente per tenere il fronte della guerra civile scatenata il 4 aprile da Haftar limitato al sud di Tripoli. Quella sì che teoricamente doveva essere una questione politica per il Feldmaresciallo, che tra l’altro il 14 maggio è stato ricevuto a Palazzo Chigi.