Skip to main content

Perché gli Usa danno una sberla a Huawei Italia. E al governo (prossimo incluso)

Cartellino rosso. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha inserito in una black list di 46 “entità” di Huawei anche Huawei Italia e il suo laboratorio di ricerca a Milano. Con la nuova lista resa pubblica lunedì sono quasi 100 le entità affiliate al colosso hi-tech di Shenzen finite nel mirino delle sanzioni Usa. Di queste oltre 20 centri di ricerca globale. È la prima volta che l’Italia viene chiamata così direttamente in causa nello scontro fra l’amministrazione Trump e il governo cinese sulla gestione della rete 5G. Le nuove sanzioni del Dipartimento presieduto da Wilbur Ross colpiscono due realtà di punta dell’azienda cinese in Europa.

Il centro di Milano è guidato da uno degli scienziati più stimati della compagnia, l’italiano Renato Lombardi, ed è in prima linea nello studio della tecnologia legata alle microonde utilizzate nelle comunicazioni mobili e satellitari. Huawei Italia è peraltro una delle “braccia”europee più avanti nella sperimentazione della rete 5G e pronta a passare alla costruzione e implementazione della rete. Lo scorso luglio il ramo dell’azienda diretto da Thomas Miao ha annunciato un investimento di 3,1 miliardi di dollari nello Stivale in ricerca, marketing e forniture globali per i prossimi tre anni. In Italia Huawei conta più di 800 dipendenti e due centri di ricerca a Milano, uno dei quali colpiti oggi dalle sanzioni Usa.

Le nuove misure erano attese dagli addetti ai lavori. Il tempismo e l’entità delle sanzioni però non possono non lanciare un monito in direzione di palazzo Chigi. Tanto per il governo che vi ha abitato nell’ultimo anno, tanto per quello che vi si insedierà a breve.

Il braccio di ferro degli Stati Uniti con l’azienda leader delle telecomunicazioni cinesi e della telefonia globale è entrato da mesi in una fase di brusca accelerazione. Il decreto presidenziale volto a sanzionare qualsiasi azienda americana che acquisti o venda prodotti al gigante hi-tech fondato da Ren Zhengfei è stato di nuovo allentato con una proroga di 90 giorni per permettere alle aziende della Silicon Valley di ricalibrare il loro business con la controparte cinese e far valere la leva delle sanzioni in sede di negoziati commerciali con Pechino. Rimane peraltro l’incognita Google Android. Non è infatti chiaro se l’amministrazione Usa voglia andare fino in fondo con il decreto rendendo di fatto impossibile a Huawei l’uso del software di Google e dei chip di fabbricazione statunitense.

Da questa contesa globale che chiama in causa gli alleati di Washington il governo italiano ha scelto di defilarsi. Negli ultimi mesi sono stati diversi i balzi in avanti di palazzo Chigi ad allertare l’amministrazione Usa. Dapprima la firma del Mou con il governo di Xi Jinping lo scorso marzo per aderire alla Belt and Road Initiative (Memorandum che, contro qualsiasi monito e preavviso degli americani, ha visto inserita la parola chiave “telecomunicazioni” fra i settori di cooperazione bilaterale). Sullo sfondo c’è la partita per il 5G. L’Italia non solo non ha messo al bando (come d’altronde molti altri Paesi Ue) le aziende statali cinesi dalla corsa all’implementazione della banda larga ma ha anche rallentato un iter legislativo volto a schermare la rete 5G da rischi per la sicurezza nazionale. Trattasi della nuova normativa sulla golden power contenuta in un dl che, nonostante le rassicurazioni del governo gialloverde, è finito affossato salle commissioni competenti per l’esame al Senato e dunque non è stato riconvertito in legge nei 60 giorni previsti.

Leggerezze e dimenticanze che certo non passano inosservate agli occhi dell’amministrazione Trump. Che infatti ha deciso di colpire con il nuovo pacchetto di sanzioni tanto il ramo italiano di Huawei quanto il centro di Segrate dove lavorano più di cento dipendenti. Un campanello d’allarme che deve risuonare al più presto nei palazzi della politica e che dimostra che nessun Paese alleato è considerato estraneo (senza un valido motivo) alle misure restrittive. Il caso dovrà arrivare sulla scrivania di palazzo Chigi a prescindere da chi vi si siederà nelle prossime settimane. Gli analisti internazionali non  nascondono una certa apprensione per il modo in cui un governo di coalizione Pd-M5s può gestire il dossier cinese, viste le consolidate vicinanze fra i due partiti su una gestione dei rapporti con Pechino che prescinde dai consigli e dai moniti dell’alleato a Washington DC.


×

Iscriviti alla newsletter