Cambia il mondo, cambia la medicina e cambiano le cure. Un Paese come l’Italia, dotata di un Servizio sanitario tra i più complessi, ma anche efficienti al mondo, non può certo tirarsi indietro dinnanzi a una simile sfida. Ma come fare? Ne abbiamo parlato con Rosaria Iardino, presidente della Fondazione The Bridge, in occasione del progetto “In scienza e coscienza”, nato dalla collaborazione fra Fondazione Roche e Formiche, con l’obiettivo di interrogarsi – e interrogarci – sul dibattito in merito alla libertà prescrittiva del medico e ai vincoli economici imposti dalla limitatezza delle risorse e dalla necessità di Regioni e aziende ospedaliere di gestire il contenimento della spesa sanitaria: come bilanciare le migliori cure con la sostenibilità finanziaria?
Come si declina la libertà, in generale, e la libertà prescrittiva, in particolare, del medico?
Io utilizzo sempre un vecchio metro di misura, quello della libertà: quello è il mio perimetro. La mia libertà, individuale o nel campo della professione, resta tale finché non vado a invadere quella di un altro. Lo stesso deve accadere fra sfera prettamente sanitaria e sfera economica. Nel caso specifico, infatti, la libertà prescrittiva del medico non deve essere messa in discussione, sebbene debba sempre andare di pari passo con il criterio di appropriatezza, che spetta al medico e solo al medico definire.
Lei crede che i limiti di budget ingeriscano sulla libertà prescrittiva del medico?
In realtà non ci sono limiti di budget, c’è semmai una programmazione di budget, che credo, però, influisca sulla discrezione del medico nel prescrivere la cura migliore. Io personalmente, devo ammettere, non conosco casi di medici che abbiano prescritto cure molto care che poi sono state negate per tale ragione. Ma la domanda è: quanto i medici denunciano questi accadimenti e quanto, se lo fanno, ottengono un feedback adeguato? Ad oggi non possediamo alcun dato su queste eventualità.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un crollo della fiducia dei pazienti nei confronti dei medici. Lei crede che i sanitari stiano scontando in qualche modo le limitazioni economiche imposte dai budget?
Secondo me entrano in ballo più fattori. Da una parte abbiamo un personale sanitario nel pubblico vecchio e stanco e medio-tollerante in merito alle attività di ascolto e di accoglienza, entrambe di grande rilevanza per la cura di un paziente. Lo Stato, tra l’altro, non sta inserendo nuove figure professionali, generando così una criticità nella relazione tra medico e paziente. Dall’altra, vi è una percezione di non indipendenza dei clinici, legata ai tanti scandali che si sono succeduti negli anni e che, inevitabilmente, sono venuti alla luce.
Cosa dovrebbe – e potrebbe – fare la politica per tutelare i nostri medici e garantire che lavorino nel pieno rispetto della propria professione? Non se ne parla abbastanza, o non se ne parla nei modi e negli spazi giusti?
La politica non solo deve tutelare il medico, ma deve tutelare tutti gli operatori sanitari. E fare lo sforzo di capire quali saranno le cure che serviranno da qui a 20 anni. Non è detto che servano 100mila medici – certo – ma bisogna senza dubbio pensare a come curare bene i pazienti e immaginare quale team servirà per gestire al meglio i cambiamenti della popolazione. Occorre provare a immaginare, insomma, come aiutare il medico non solo assumendo nuovi operatori, ma mettendo i professionisti nella condizione di avere un gruppo di lavoro che li aiuti e li sostenga.
Quale condotta del medico nel caso in cui gli strumenti di diagnosi siano sofisticati, ma le cure possibili non siano disponibili o rimborsate dal SSN?
Bisogna rispettare la legge e il medico deve applicarla. Se un medico indica un percorso di cura non disponibile nel nostro Paese, la legge prevede che si possa andare all’estero e che la Regione paghi quella cura, oppure che sia il paziente ad acquistarla direttamente. In caso non si possa anticipare, l’Asl di provenienza e l’ospedale dove si è in cura possono coprire i costi, ma il problema è che molti cittadini non lo sanno. Ad ogni modo, in nessun caso il medico può o deve mai astenersi dalla diagnosi.
Universalismo delle cure e scelte: chi possiamo curare e chi no, per quali patologie e con quali terapie?
Noi abbiamo al momento un sistema universalistico delle cure e anche un Servizio sanitario nazionale tra i migliori al mondo, e tale deve rimanere. Universalismo non vuol dire non cambiare sistema se dovesse essercene la necessità, ma vuol dire che nel territorio italiano ognuno deve poter accedere alle migliori cure e al minor costo possibile. Noi oggi abbiamo un universalismo che va ridisegnato, abbiamo un SSN che ha dei deficit ma che non per questo non va smantellato. Va compreso e sistemato, laddove necessario.
Trasparenza medico-paziente. Se un paziente non può essere curato perché non c’è cura, chi ha l’obbligo di dirglielo?
Il medico, il clinico, ha il dovere di dirglielo, senza fare accanimento. Ma questo non vuol dire non prendersi carico della persona, che comunque deve essere curata dall’inizio alla fine. Non basta dire “non ho il farmaco o il trattamento”; il paziente può restare in carico per essere accompagnato fino alla fine della vita. Serve, ad ogni modo, sicuramente una comunicazione più strutturata.
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