E così la Bce, ancora per qualche settimana sotto la guida di Draghi, ha varato l’ennesimo quantitative easing ed un ulteriore taglio dei tassi sui depositi verso valori negativi. Un segnale pessimo, che sottintende un’analisi cupa degli scenari economici e politici futuri in Europa.
Certo, l’inflazione è ancora inferiore all’obiettivo del 2%, suggerendo l’opportunità di espandere la quantità di moneta. Ma dovremmo aver capito la lezione degli ultimi anni: siamo in un contesto di piena trappola della liquidità. Per quanto scendano i tassi d’interesse, non sarà mai abbastanza per far ripartire il credito e gl’investimenti; per l’eccessiva prudenza delle banche e perché le aspettative di imprese e famiglie sono negative.
In tale contesto, sarebbe necessario metter mano alla politica fiscale espansiva, per forzare la mano ai moltiplicatori della spesa e sperare in un rialzo del reddito. Ma i debiti pubblici già enormi della maggior parte degli Stati europei (e le regole della governance economica europea) non permettono di agire in tal senso, perlomeno non a livello nazionale. D’altronde, gli effetti di spillover della politica fiscale (in un contesto di value chains ormai globale) rischiano di innescare i moltiplicatori altrove.
Esistono però altre vie d’uscita, fra loro in parte complementari.
La prima è di tipo strutturale, volta a modificare sul lato dell’offerta la natura e la produttività di interi settori e mercati. In sostanza: maggiore concorrenza in mercati monopolistici ed oligopolistici nazionali ed allo stesso tempo tutela e promozione della competitività globale delle imprese europee, anche con la creazione di monopoli (naturalmente strettamente monitorati sul mercato interno quanto agli effetti sui cittadini europei), in modo da conquistare fette di mercato mondiale in aree strategiche.
La seconda è quella della riduzione degli ostacoli al potenziamento della domanda aggregata, sia nella componente famiglie (come la riduzione del cuneo fiscale, finanziata magari con le minori inefficienze di cui al punto precedente) sia delle imprese (che passa essenzialmente per un miglioramento delle aspettative, in parte sensibili al comportamento delle famiglie, ma in massima parte alla credibilità complessiva dell’azione delle autorità pubbliche).
Il terzo percorso consiste nell’aumentare il finanziamento alla ricerca ed all’innovazione, puntando sul capitale umano come elemento di crescita endogena e sul raggiungimento (o meglio, lo spostamento in avanti) della frontiera delle possibilità produttive, soprattutto in settori che si preannunciano strategici nei prossimi decenni (transizione ecologica ed energetica, infrastrutture di comunicazione e trasporto, bio-agroalimentare, piattaforme e sicurezza digitali, etc).
Il quarto, ancora intentato, è la creazione di una capacità fiscale europea adeguata, sia per compiti anticiclici, sia (parzialmente) redistributivi. Da finanziare con risorse autonome (in parte già individuate da diversi documenti della Commissione UE) e in parte da una ristrutturazione delle competenze fra livelli di governo (che coinvolga quelli locali, regionali, nazionali ed europeo).
Insomma, se Draghi si è ancora una volta convinto della necessità del quantitative easing è perché crede che queste strade siano, almeno nel breve periodo, chiuse o impercorribili e che, nonostante tutto, nonostante la sostanziale inefficacia della politica monetaria per far ripartire la crescita, un’espansione monetaria sia l’unico segnale che può evitare una nuova speculazione aggressiva, pro-ciclica ed asimmetrica (quindi destabilizzante) sui debiti sovrani, che aggraverebbe ulteriormente una già delicata congiuntura economica e politica. Speriamo che, nonostante le buone intenzioni, quello che hanno dato Draghi e la Bce non si riveli per quello che sembra essere: il segnale di una potenza di fuoco che non c’è più.