La disciplina relativa al dibattito pubblico, la versione italiana del débat public francese, introdotto da molti anni con la Legge Barnier, prevede una metodologia di dialogo tra i gruppi di interesse (economici, sociali, territoriali, ambientali) coinvolti dalla realizzazione di un progetto o di un’opera. Introdotto dall’articolo 22 del Decreto Legislativo 50 del 2016 (“Codice degli appalti”) e poi disciplinato nel dettaglio dal regolamento entrato in vigore nel 2018, il dibattito pubblico si pone l’obiettivo di ampliare “la trasparenza nella partecipazione dei portatori di interesse” grazie al ricorso ad un processo di confronto aperto e partecipato, ma di durata definita, con tutti i portatori di interessi ogniqualvolta si preveda di effettuare “grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulle città e sull’assetto del territorio”.
Secondo la meccanica prevista dalla disciplina, si pone un obbligo, a carico dell’amministrazione aggiudicatrice che propone di opere che superino una data soglia di rilevanza economica, di convocare i portatori di interesse territoriali e di eseguire tutto lo svolgimento della procedura, raccogliendo esiti e osservazioni per la successiva trasmissione alla conferenza dei servizi. Il tutto si svolge in un tempo definito, di modo tale che l’ascolto costruttivo di tutti i portatori di interesse non costituisca un veto permanente all’opera e all’intervento, laddove le finalità e le modalità di realizzazione appaiano condivise dalla maggioranza dei soggetti coinvolti.
Decreto e regolamento sono stati approvati, ma finora mai messi alla prova dei fatti. Sarebbe opportuno verificare, grazie alla prova dei fatti, l’efficacia – o l’eventuale emendabilità – delle procedure introdotte nel sistema, grazie ad una valutazione ex post.
A cosa serve infatti il dibattito pubblico sulle grandi opere?
Da un lato esso garantisce una consapevole e tempestiva gestione del dissenso dei soggetti organizzati sul territorio, che spesso costituiscono l’ultimo potere di veto territoriale per progetti già decisi e finanziari: dall’altra, secondo un approccio più sistematico, esso costituisce uno strumento operativo molto utile per il miglioramento della qualità della democrazia, grazie alla capacità di affrontare decisioni politiche secondo modalità partecipate e negoziate tra attori pubblici e privati.
In primo luogo, è possibile considerare, in una fase temporale ottimale, la capacità di gestione dei “veto players”, ovvero dei titolari di poteri di veto. Convocare preventivamente, sulla base di un progetto di fattibilità, tutti coloro che ritengono di avere un interesse concreto sul tema della “grande opera” e mettere questi soggetti a confronto su caratteristiche tecniche e dati consente di gestire il dissenso in una fase precedente alla realizzazione dell’intervento; in questa fase si chiariscono i termini e le motivazioni del disaccordo e se ne definisce il tentativo di superamento nei tempi posti dalla procedura di dibattito pubblico, evitando l’esplosione del conflitto.
Si tratta di un elemento da non sottovalutare, se si considerano i costi, economici di impresa e collettivi della politica, che si sono verificati laddove il dissenso su una infrastruttura/grande opera è stato sottovalutato e non gestito: i poteri di veto delle comunità territoriali si sono radicalizzati, laddove non venivano resi disponibili canali e strumenti per la rappresentanza degli interessi delle comunità locali verso le istituzioni e i soggetti di impresa coinvolti nel progetto.
Il dibattito pubblico si configura anche come palestra della democrazia, soprattutto nella dimensione locale, in cui i sempre più frequenti interventi a tutela e promozione degli interessi territoriali dei cittadini si esercitano nel dialogo con i soggetti di impresa, con le istituzioni locali e con tutte le altre forme di rappresentanza sociale e ambientale. Questo strumento qualifica l’azione della cittadinanza attiva, prevedendone un canale di trasmissione codificato; al tempo stesso si pone anche come elemento di sfida per le argomentazioni di comitati civici, che devono sempre più attenersi alla dimensione fattuale delle scelte collettive operate in un contesto territoriale. Allenando le rappresentanze territoriali a ragionamenti che superino la dimensione NIMBY (“Not in my backyard”, non nel mio cortile) si svolge un intervento di qualificazione della cittadinanza attiva, chiamata a misurarsi con soluzioni alternative, oltre che con veti operativi.
Una serie di motivazioni che rendono davvero utile l’avvio di questa esperienza.