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L’eredità di Mario Draghi, fra Bruxelles e Roma. Il pungolo di Polillo

La scelta di Mario Draghi, a un passo dalla fine del suo mandato, ha fatto rumore. Dissociazione postuma, dopo il voto a favore nel board, da parte di Jens Weidmann e Klaas Knot, rispettivamente presidente della Bundesbank e della Banca centrale olandese, una volta a rientrati in patria. Timorosi di non incontrare il favore di un pubblico fin troppo restio ad abbandonare la strada dell’austerità. Non solo ragioni di comodo. I limiti di una politica monetaria troppa espansiva sono evidenti. È utile per arrestare una deriva verso l’implosione del sistema, ma, da sola, poco efficace nel rimettere in moto il meccanismo dello sviluppo.

L’ulteriore complicazione è data dalla sua continua reiterazione. I titoli che la Banca centrale può acquistare sul mercato, stante i vincoli quantitativi posti al suo intervento (ripartizione tra Stati e limitazioni percentuali sugli acquisti) stanno determinando una loro penuria. Specie per quei bond, come il Bund tedesco, richiestissimi dagli investitori, per le garanzie offerte. Situazione che renderà quanto mai problematica l’ipotesi di una dimensione di lungo periodo dello stesso quantitative easing.

Si spiega allora il monito rivolto ai vari governi. Fate qualcosa, specie se si hanno spazi di bilancio, per accompagnare l’azione della Banca centrale verso un obiettivo di sviluppo. In soldoni: modificate le regole di bilancio. Almeno così sono state interpretate quelle parole. E si è subito accesa la discussione. Le flessibilità previste dal Patto di stabilità e crescita, ha messo le mani avanti Valdis Dombrovskis, sono più che sufficienti. Pensare di modificare i Trattati, hanno aggiunto altri, significa aprire un vaso di Pandora: tempi biblici e risultati incerti. Per la verità un grande equivoco.

Almeno in questa fase non si tratta di giungere ad una modifica dei Trattati, ma di stendere il certificato di morte per il Fiscal compact. Da tempo passato a miglior vita. Differenza non da poco. Nella confusa e barocca legislazione europea quelle norme erano codificate in diversi regolamenti ed in un Trattato internazionale. Difficile vedere altrove una stratificazione legislativa così farraginosa. La differenza consiste nel fatto che mentre i Trattati rappresentano la “il diritto primario”, i regolamenti appartengono alla categoria del “diritto derivato”. Non hanno cioè la stessa autorevolezza giuridica.

La vecchia Commissione europea, quella presieduta da Jean-Claude Juncker, aveva cercato di risolvere il problema, proponendo il loro inserimento definitivo nell’ordinamento europeo. Proposta, tuttavia, bocciata dal Parlamento europeo, grazie ad un voto paritario (che equivale ad un voto contrario) della Commissione per i problemi economici e monetari, allora presieduta da Roberto Gualtieri, l’attuale ministro italiano dell’economia. Situazione di impasse.

Rimaneva aperta la via del Trattato. Sennonché il relativo articolo 16 prevedeva che, alla scadenza (il 2019), prima di procedere oltre, si dovesse avviare una “valutazione dell’esperienza maturata in sede d’attuazione”. Obbligo che la Commissione, dopo le lacrime da coccodrillo sparse sull’esperienza greca, si è guardata bene dal rispettare. Doppia impasse, quindi, che lascia scoperto il fianco dei “rigoristi”. Esiste ancora una legittimazione effettiva di quelle regole? Non tanto sul piano giuridico, la cui interpretazione si presta ai mille cavilli, quanto sul terreno, ben più concreto, della realtà economica e politica dell’Unione europea.

Di fronte a questo groviglio di contraddizioni, la proposta, sottesa all’intervento di Mario Draghi, può essere letta in modo differente. Si dia più valore all’analisi degli squilibri macroeconomici, previsti nell’Alert mechanism, che pure fa parte dei Trattati. E su questi dati, che meglio fotografano la situazione reale dei singoli Paesi, si costruisca una politica economica che miri a risolverne le più intime contraddizioni. Qual’è la differenza? Considerare gli assetti di finanza pubblica non come l’esclusivo punto di riferimento, ma come uno dei tanti parametri – senza nulla togliere alla sua importanza – che caratterizzano la più complessa realtà delle singole economie.

Per l’Italia questo diverso approccio offrirebbe margini ben più ampi per una politica di sviluppo. Se il rapporto debito pubblico – Pil non può non preoccupare, non si può trascurare il forte surplus delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti. Che la stessa Commissione quantifica nel 2,3 per cento del Pil nell’ultimo triennio: ben superiore al deficit di bilancio. Segno di un motore imballato per il peso debordante del carico fiscale, che determina un eccesso di risparmio, rispetto alle capacità di investimento del mercato. Mentre il livello di disoccupazione è considerato uno dei principali squilibri macroeconomici. Contraddizioni evidenti. Le cui implicazioni emergono nella diagnosi impietosa della Bce. Faranno anche presa sul nuovo governo giallorosso?


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