C’è una cosa molto seria nel programma del nuovo governo, cioè quella del “Green New Deal”. A conferma di ciò in un’intervista di venerdì scorso, pubblicato su un importante quotidiano nazionale, il ministro Gualtieri metteva sul tavolo l’idea di scorporare dal deficit gli investimenti per l’ambiente.
Più umilmente anche su Formiche (“Tra riforma ambientale e sussidi ambientalmente dannosi”) si proponeva un piano di investimenti in campo ambientale, piuttosto che tagliare sussidi ambientalmente dannosi di ambigua classificazione (almeno per il sottoscritto) e introdurre nuove tasse ambientali, dato il livello di prelievo ormai inaccettabile a livello italiano.
Peraltro, l’idea di rilanciare gli investimenti sembra sia qualcosa di condiviso da parte di una della più importante cancellerie europee che si accingerebbe a mettere sul tavolo 40 miliardi per la protezione del clima. A questo proposito suggeriremmo alle cancellerie europee che il campo di applicazione degli investimenti verdi includa anche la più onnicomprensiva “Economia circolare”.
Infatti, non solo in Italia, ma anche a livello europeo molti rifiuti prodotti e raccolti vengono esportati in Asia e il bando sulle importazioni fatto della Cina per le tipologie peggiori sta pesantemente impattando sulle attività di “waste management” a livello europeo e statunitense. Quindi tutto bene, sperando che l’ambiente non sia usato come placebo (come scriveva Chicco Testa su Il Foglio di sabato).
Ma… ma c’è un ma.
Ricorderete la vicenda EoW.
Su Formiche.net se ne è scritto più e più volte e, forse, non si è mai parlato o scritto di EoW, cioè di fine del rifiuto (“End of Waste”), come di questi tempi (“Perché l’Italia fa ancora troppo poco per l’Economia Circolare”, 30 giugno 2019). Un EoW è una materia prima che proviene da un rifiuto individuato per tipologia, trattato in maniera adeguata e che risponde a determinati standard.
Per un po’ di tempo l’attività autorizzativa a livello regionale ha tenuto conto degli standard nazionali vigenti (il DM 5.2.1998), ovviamente con i necessari adattamenti. Infatti, le autorizzazioni regionali (o provinciali) sono nominative e riguardano, ovviamente, casi specifici. Il DM 5.2.1998 nasceva, invece, come una procedura semplificata per incentivare il recupero dei rifiuti e tutt’ora viene avviata sulla base di una comunicazione: la Regione o la Provincia riceve la comunicazione sulla base degli standard indicati dal decreto del 98 e, se rispettati, si inizia l’attività. Invece, quasi in maniera perversa, il DM citato è diventato l’unico (e solo) standard nazionale in materia.
La sentenza del Consiglio di Stato, 28 febbraio 2018 n. 1129 sancisce ciò e afferma che che se i rifiuti possono cessare di essere tali, la declassificazione deve avvenire a livello regionale, ma per tutto l’ambito territoriale dello Stato membro con standard nazionali. Qual è la conseguenza di questa sentenza? Si sono bloccati i procedimenti autorizzativi a livello regionale sul presupposto che la produzione di un EoW (cioè la produzione di una materia prima da un rifiuto) comunque deve rispondere a standard nazionali. Questi molto spesso questi non ci sono o, più semplicemente, non sono più quelli del DM 5.2.1998. La questione si trascina dal febbraio del 2018 ed evito i dettagli.
Sta di fatto che, il legislatore, dopo infinite richieste da parte del mondo produttivo e ambientalista di trovare una soluzione (che unanimamente chiedevano – e chiedono – il recepimento dell’art. 6 della Direttiva n. 851/2018), assumeva una decisione che è ormai legge da qualche mese.
Anche di questo abbiamo già parlato (qui) commentando l’art. 1, comma 19 della legge 14 giugno 2019 n. 55 (Gazzetta Ufficiale del 25 giugno, Supplemento Ordinario n. 24) e giungendo alla conclusione che non abbiamo fatto passi avanti e che è ancora necessario introdurre l’art 6 della Direttiva n. 851/2018, in particolare il par 2 e seguenti. Le norme recentemente varate prevedono, infatti, di rifarsi esclusivamente al DM 5.2.1998, varato più venti anni fa (con indubbi limiti sotto il profilo della casistica e delle tecniche considerate) e a future linee guida (sigh!), anziché recepire l’art. 6 della Direttiva n. 851. Troppo poco per l’industria italiana e la seconda potenza manifatturiera d’Europa. Troppo poco per l’Economia Circolare.
L’art. 6 della Direttiva prevede invece un’armonizzazione competitiva con tre diversi livelli: uno europeo, l’altro nazionale e infine il caso per caso. Quando non ci siamo standard né a livello europeo né a livello nazionale, l’art. 6 prevede l’autorizzazione caso per caso, adottando misure appropriate, tra cui valori limite per le sostanze inquinanti e la valutazione di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente e la salute umana. Questa è la norma che va trasposta nell’ordinamento nazionale.
Ma perché non approvare un emendamento che recepisca il predetto art. 6 nell’approvazione o durante la conversione di qualche decreto legge? In favore di questa proposta ho individuato almeno dieci buone ragioni che elenco di seguito:
1. è coerente con il programma di Governo nella parte in cui si dà l’indirizzo di un “Green New Deal”. Avere il quadro normativo non significa avere le autorizzazioni in tasca, ma almeno c’è la possibilità di poterle rinnovare e di richiederne ex novo;
2. significa “normalizzare” il Paese (scusate il termine pessimo, ma non mi è venuto nulla di meglio): non è possibile che per una perversione giuridica non sia possibile richiedere delle autorizzazioni per riciclare e recuperare rifiuti;
3. si anticipa una norma del pacchetto europeo sull’Economia Circolare che dovremmo recepire entro il 2020! Una buona norma che viene recepita in anticipo. Niente male come segnale;
4. sbloccare le autorizzazioni EoW significa ridare fiducia e prospettive al mercato, ai produttori e i gestori di rifiuti: più autorizzazioni significa, inoltre, ampliare il “mercato legale” a scapito di quello “illegale”;
5. si sbloccano tanti investimenti che hanno un impatto sul PIL! Evviva;
6. avere un numero maggiore di impianti significherà anche poter ridurre il trasporto dei rifiuti in Italia e verso l’estero: in questo modo saremo più coerenti con i vigenti principi dell’autosufficienza e della prossimità in materia di gestione dei rifiuti;
7. si dà sostanza e contenuto al tema del Green Procurement: è abbastanza inutile inserire clausole verdi nei capitolati o dare incentivi fiscali se non si riescono ad incrementare le “produzioni verdi” in Italia. E per far questo ci vogliono prima le autorizzazioni e poi fabbriche e qualche ciminiera. Altrimenti avvantaggiamo i nostri concorrenti europei che hanno già queste capacità produttive;
8. si rilancia un’attitudine tutta italiana – che è un Paese manufatturiero ma senza materie prime – e, quindi, da sempre usa materie prime secondarie, scarti e prodotti;
9. si completa il sistema del DM 5.2.1998 e dell’EoW per le filiere di materiali, che sono stati “concepiti” per incentivare il riciclo (e non per bloccarlo): l’utilizzo del caso per caso (con tutte le garanzie e cautele) è indispensabile in quanto non potremmo mai avere un decreto ministeriale che fissi gli standard per ogni possibile tipologia di riciclo e di recupero;
10. se, come dice il ministro Gualtieri, dobbiamo puntare agli investimenti verdi da scorporare dal deficit non possiamo non avere una normativa di base che incentivi e disciplini il riciclo e il recupero dei rifiuti. Facciamogli questo regalo!
Abbastanza velocemente ho tirato giù dieci buone ragioni di cui sopra. Altre se ne potrebbero aggiungere. Perché non recepire in fretta e furia l’art. 6 della Direttiva n. 851/2018, in particolare il par 2 e seguenti dello stesso?