La reazione di Ursula Von der Leyen alla critiche avanzate contro la sua proposta di istituire un portafoglio per “la difesa del sistema di vita europea” è stata, al tempo stesso, ferma e gentile. Nessuna stizza nei confronti di chi l’aveva più o meno aggredita, facendo balenare l’ipotesi di un suo presunto “razzismo”. Nelle peggiori accezioni o di voler instaurare, nelle migliori, forme di apartheid, contro la marea montante dell’immigrazione. Gara che ha contagiato tutta la sinistra europea ed uomini politici (da David Sassoli a Enrico Letta) di solito più prudenti nel dare giudizi sommari.
La lettera, pubblicata da Repubblica, mira a tranquillizzare, forte della serenità che nasce dalla consapevolezza di interpretare un sentimento comune, largamente diffuso. Qualcosa difficilmente definibile nei suoi contenuti effettivi. Operazione, forse, addirittura superflua, che la presidentessa risolve ricordando i fondamenti giuridici dei Trattati istitutivi. Lo stile di vita è qualcosa che esiste, a prescindere da ogni tentativo di classificazione. È come un grande fiume che scorre e che non si può imbrigliare. Ma non per questo se ne può negare l’esistenza.
Possiamo anche tentare un immaginario catalogo: la cultura, il gusto per la libertà, la partecipazione popolare alle istanze democratiche, le radici giudaiche cristiane, e via dicendo. Ma ogni definizione risulterebbe riduttiva. Il sistema di vita europeo è il frutto di una storia complicata, ma anche unica e irripetibile. Conseguenza di tragici errori, ma anche di momenti di riscatto individuale e collettivo. Risultato del meticciato di tante storie nazionali che si sono confrontate, spesso scontrate in modo sanguinoso, ma che, alla fine, si sono mescolate.
Questo patrimonio va difeso? Non c’è dubbio. Segna un’identità collettiva che non deve smarrirsi nelle proiezioni del futuro. Specie nel momento in cui i processi di globalizzazione, di cui lo stesso fenomeno della grande migrazione è figlio, tendono ad un’omologazione che potrebbe segnare momenti di arretramento rispetto ad un benessere, non solo economico, ma culturale, conquistato a caro prezzo. Quando Putin celebra il trionfo dei regimi illiberali, costringendo lo stesso Mario Draghi, di solito alieno dall’intervenire su simili argomenti, ebbene, questo significa difendere un diverso modello di civiltà.
Oppure quando ritorna lo spettro delle guerre di religione, come della Jihād con il suo seguito di attentati terroristici, si può forse sostenere che l’Europa debba abbassare la guardia? O non si debba, al contrario, rispondere con l’invito a quella tolleranza che è frutto di reminiscenze storiche antiche, come il ricordo degli orrori della “guerra dei trent’anni”, che ne insanguinarono i confini? Nessun richiamo all’ecumenismo o all’internazionalismo del bel tempo andato – a loro volta componenti non marginali della storia europea – può prevalere su un carattere identitario ben più complesso e stratificato, rispetto a momenti, pure importanti della storia passata.
C’è solo un’aspetto della lettera del presidente della Commissione europea che è meno convincente. Quella sua condanna nei confronti di “quei populisti nostrani che, scandendo slogan nazionalistici dozzinali, cercano di destabilizzarci dall’interno”. Se è un tentativo di coprirsi politicamente, non si può dire che sia riuscito. Anche di questi fenomeni, che indubbiamente esistono, occorre dare una lettura meno superficiale. L’Europa del dopo crisi – quella del 2007 – 2008 – non è più quella ipotizzata e celebrata dai Padri fondatori. Basti considerare l’invenzione di tendenza intervenuto nel processo di convergenza, che era la principale ragione sociale di quel grande sogno. Ed al prevalere degli egoismi dei Paesi più fortunati. Il populismo è anche l’effetto di quella inversione. Difendere l’identità europea significa, allora, mettervi mano, correggere quello che deve e può essere corretto. Poi, come era solito dire Charles De Gaulle, “l’intendence suivra”.