La discussioni sui cosiddetti “temi etici”, come se gli altri non lo fossero, ha visto da anni crescere il confronto su posizioni contrapposte e quindi integraliste. In particolare e particolarmente divaricante sul “fine vita”. Eppure la dottrina della Chiesa condanna l’interruzione di idratazione e alimentazione, ma in Italia furono proibite le esequie di Pier Giorgio Welby che interruppe la ventilazione. Aver trascurato questo ha fatto sì che, come era evidente da giorni, la questione definita da tutti del “fine vita” torni a dividere l’Italia in vista dell’imminente discussione della Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi al riguardo già nelle prossime ore.
Oggi si riunisce il consiglio permanente della Cei e certamente la questione sarà presentata e discussa con tutto il riguardo che merita. La politica invece non è stata capace di discuterne in termini pubblici, chiari, adeguati. Sembra dividere soprattutto credenti e non credenti. E come sempre con questioni che alzano all’apparenza un muro che coinvolge la laicità dello Stato e la coscienza dei fedeli i ferri si arroventano. Così glissare e delegare ai giudici, che sono un potere ma non sottoposto al suffragio elettorale, conviene a tutti o quasi. Ma davvero si tratta di una questione che divide credenti e non credenti? È davvero così? O il prevalere degli integralismi non rischia di avvelenare un confronto necessario, utile, importante, profondo?
Parlando di “fine vita” non si aiuta certo i portatori di sensibilità diverse a capirsi. I credenti ovviamente non possono che trovare in questa discussione un motivo di preoccupazione fondata e giusta perché discutere di “fine vita” vuol dire discutere della possibilità di sostituirsi a Dio. Non parliamo ovviamente di assassinio, è chiaro, ma legittimare l’idea che qualcuno possa decidere chi può morire non vuol dire che costui è diventato di Dio? Non siamo più ai tempi in cui la Chiesa parlava dei diritti di Dio e non di quelli dell’uomo, di fatto negandoli, ma come accettare che diventi un diritto umano disporre della vita? Il problema non è solo quello di delimitare il campo di discussione. Si parla forse del caso di un giovane coniuge che abbandonato dal suo amore decida di suicidarsi e quindi di chi decida di aiutarlo a perseguire il suo scopo? Certo, quando si parla di legalizzazione dell’eutanasia si contemplerebbe anche questo caso. Ma anche i proponenti l’eutanasia si riferiscono al diritto di sospendere terapia salvavita, delimitando il campo. Se si parla solo di persone malate, stanche di sofferenze divenute interminabili e insopportabili, è bene dirlo. Non è una questione di lana caprina, visto che la Corte Costituzionale discuterà dell’articolo 580 del codice penale che equipara l’istigazione e l’aiuto al suicidio. L’articolo del codice penale delimita?Anche i termini giurisprudenziali non delimitano: i giudici nella sentenza che verrà discussa dalla Consulta negando l’equiparazione tra istigazione e aiuto si riferiscono alla tutela della dignità della persona e dell’autodeterminazione, non ad altro. Certo, il riferimento sembra specificare, ma essere chiari aiuta sempre.
Venendo allo specifico della discussione il cardinale Bassetti ha parlato del dovere di vivere e di ciò che mai consideriamo, cioè quanto dà il malato. Abituati a vedere piuttosto la malattia dimentichiamo che la vita è relazione. Ma ciò che è naturale per il malato non siamo noi a determinarlo. La Chiesa infatti ha sempre avversato lo scientismo e il prolungamento della vita in determinate condizioni lo determina la scienza, non la natura: la scienza infatti offre oggi della possibilità di prolungamento impensabili della vita. È l’uomo, la scienza che ha creato questa possibilità. Davanti a questo fatto oggettivo la dottrina cattolica ha condannato l’accanimento terapeutico. Ma possono essere solo le tipologie di terapia a determinare quando è accanimento? Questo è il punto vero della discussione, che non si considera. La dottrina ecclesiale indica un possibile accanimento nella ventilazione. Sicuro che in altri casi non ci sia mai? Qui emergono due preoccupazioni legittime: la prima dice che è sbagliato pretendere che ognuno sia padrone di stabilire per sé o per i suoi cari quando sia cura necessaria o accanimento terapeutico. La seconda dice che solo la differenza sta solo nella tipologia di intervento. C’è aria di opposti schematismi.
Emergono poi preoccupazioni importanti: i primi osservano che barricandosi dietro al desiderio di porre termine alle sofferenze si può in realtà nascondere anche a se stessi di voler porre termine a fatiche, spese, obblighi. È vero… Sovente non lo ammettiamo, ma il malato è diventato uno scarto, magari solo perché vediamo la malattia, non il malato. I secondi però denunciano che non esagerando non si difenderà la persona, ma la legge.
C’è una soluzione? Di certo reimpostando il confronto non sul “fine vita” ma su accanimento e terapia il divario coinvolgerebbe anche il singolo, la sua storia, non soltanto tipi di cure e timori. Anche di quello si deve tener conto. Tutto sommato nel giuramento di Ippocrate si giura di non somministrare mai sostanze letali ma anche di “osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato”.