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La Cina vuole giocare la partita afghana. Il negoziato con i talebani

La Cina sta cercando di sfruttare il dossier Afghanistan per sorpassare gli Stati Uniti su un fronte politico-diplomatico di primo piano. Una delegazione di nove membri dei Talebani guidata dal mullah Abdul Ghani Baradar (uno dei fondatori dell’organizzazione e capo dell’ufficio diplomatico, che ha sede a Doha) è oggi a Pechino per parlare con Deng Xijun, rappresentante speciale della Cina per l’Afghanistan. Il meeting serve per discutere dei colloqui di pace che i combattenti ribelli hanno intrapreso con gli Stati Uniti. Erano un buon “framework”, dice il portavoce del gruppo parlando dal Qatar, ma Washington ha fatto saltare il tavolo – e allora i combattenti si appellano a Pechino, perfetta sincronia con la polarizzazione in corso; tema, la polarizzazione tra potenze, su cui i Taliban sanno come muoversi sin dalla Guerra Fredda.

I negoziati con gli statunitensi erano arrivati due settimane fa al momento clou, con un incontro a Camp David programmato tra i rappresentati talebani e Donald Trump, ma sono poi naufragati perché all’interno del gruppo jihadista c’è qualcuno che mina il processo e continua a colpire i civili afghani con attentati – e perché all’interno della Casa Bianca c’è qualcun altro che frena gli istinti con cui il presidente vorrebbe chiudere un accordo entro la fine del suo mandato tralasciando parti fondamentali del contesto (la sicurezza, la strategia, la stabilità regionale).

“Manteniamo questo momentum, giochiamo un ruolo positivo tutti”, ha commentato il ministero degli Esteri cinese parlando direttamente agli Stati Uniti; una dichiarazione che serve anche come propaganda, perché di fatto, a giugno, il governo cinese s’era espresso in modo contrario al contatto Usa-Talebani, dichiarando che si sarebbe preferito un colloquio intra-afghano. Pechino dice adesso di sostenere i negoziati per “realizzare la riconciliazione nazionale, la pace e la stabilità in una fase iniziale” e che “continuerà a svolgere ruoli costruttivi a tal fine”.

Possibile che i cinesi vogliano mettere il dito nella piaga per indispettire Trump, possibile che ci sia una sorta di contatto incrociato nell’ambito di un tentativo di riavvicinamento tra Usa e Cina sul fronte commerciale. Tutto comunque arriva in un momento delicato, perché non solo è saltato il tavolo con Trump e gli americani, ma sabato sono previste le elezioni presidenziali: esercizio democratico a cui si oppongono i Talebani, che hanno lanciato appelli ai cittadini chiedendo di non recarsi ai seggi per evitare di finire vittime di attacchi.

Quello che è certo è che per la Cina il dossier afgano non è solo un argomento su cui muovere il gioco tra potenze con gli Usa, ma è anche una questione di sicurezza nazionale. L’Afghanistan condivide infatti una confine, limitato ma molto permeabile, con lo Xinjiang, la provincia a maggioranza musulmana che ha creato grattacapi interni (istanze jihadiste e ribellioni) a Pechino, che a sua volta è intervenuta con una campagna molto criticata perché condotta attraverso l’internamento forzato in campi di rieducazione culturale basato anche su azioni preventive e metodi di polizia predittiva – le persone vengono rinchiuse solo perché potenzialmente soggette all’attecchimento di pensieri separatisti e radicali, gli viene insegnato a essere dei “cinesi modello” cancellandone radici culturali e pensiero religioso.


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