Dispiace dirlo ma uno dei primi atti pubblici del nuovo ministro dell’Istruzione, il grillino Lorenzo Fioramonti, è tutto il contrario di quello che si proponeva forse di essere: diseducativo e non educativo nei confronti dei ragazzi delle scuole italiane. Mi riferisco alla improvvida circolare fatta pervenire ieri ai dirigenti scolastici (quelli che un tempo si chiamavano più autorevolmente presidi) degli istituti pubblici e paritari.
In essa, pur lasciando l’autonomia prevista dalla legge, li si invitava a giustificare le assenze scolastiche degli studenti che il 27 settembre (e chissà quante altre volte dopo) parteciperanno alle manifestazioni per il clima. Sia beninteso, la campagna di sensibilizzazione ecologica, come ho già scritto su queste colonne, è una gran bella cosa, se viene affrontata senza ideologismi (e connessi catastrofismi) e se non si lega politicamente all’illiberale processo di razionalizzazione normativa che ha corso oggi nel mondo.
Detto questo, il compito della scuola, e direi di ogni istituzione formativa, è quello di istruire e non di educare. O meglio anche di educare, ma prima di tutto all’etica (e alla serietà e responsabilità) dell’ufficio a cui si adempie. Non è un caso che il nostro sia appunto un “ministro dell’Istruzione” e non “dell’educazione”, casomai “popolare” come era quello di fascistica memoria (il famigerato Minculpop, per l’appunto).
La scuola deve perciò in primo luogo aiutare il formarsi, che è sempre individuale, della coscienza del singolo, attraverso un processo maieutico in cui il docente fa emergere naturalmente, senza indicare la strada, quell’unicum che contraddistingue la nostra individualità. È l’ideale classico di educazione, e non è un caso che il lemma greco di “paideia” e quello tedesco di “bildung” contengano in sé questa idea, dialettica e attiva, di formazione. Alla scuola non è chiesto di indicare una via, ma di mettere, nel più completo pluralismo e nella libertà, il giovane di fronte a diverse strade.
I giovani sono una pianta sensibilissima che non andrebbe strumentalizzata per fini politici, nobili o meno nobili che siano (che si tratti di Greta o di una ragazza vittima di Bibbiano, poco importa). La politica va sempre tenuta lontana dalle aule, anche universitarie, e così anche l’etica che non concerne in maniera stretta la responsabilità di ciò che si sta facendo. Non si può perciò predicare di marinare la scuola, perché di questo si tratta, fosse pure per uno scopo che si ritiene nobile. Se si apre la porta, altre occasioni pubbliche ci saranno per giustificare le assenze e per delegittimare ancor più quella che dovrebbe essere una delle istituzioni-cardine della nostra civiltà.
Chi giudicherà della loro nobiltà o meno? Ovviamente nessuno mette in dubbio la buona fede del ministro, ma il problema a me sembra culturale: facendo entrare la politica nella scuola, la nostra generazione, quella dei padri e dei nonni, ha contribuito a quella crisi delle istituzioni e dello Stato che è forse il problema principale della crisi attuale. Non solo in Italia, in verità, ma, in modo forse meno marcato, nell’intero Occidente. So che il ministro Fioramonti è persona colta e sensibile, di formazione anche filosofica fra l’altro. Gli faccio una proposta: perché non apre un dibattito super partes su modi e fini dell’insegnamento? Prima di mettere mano ad un settore così cruciale per la società e per il nostro futuro, sarebbe bene far partire, al massimo livello, un tavolo di discussione ad ampio raggio sul tema.