Come previsto, la Corte Costituzionale si è pronunciata sul fine vita, dopo che il Legislatore non è intervenuto per disciplinare una delle più complesse e fondamentali questioni umane del nostro tempo.
A seguito, infatti, dei numerosi casi in cui tale dilemma si è presentato, non da ultimo quello del DJ Fabo, la Consulta ha dovuto esprimere in materia una linea guida, vale a dire delle condizioni giuridiche di base.
Com’è noto la Legge Rocco presenta un complesso normativo volto ad impedire e rendere punibile ogni forma di aiuto al suicidio. Si tratta della tesi etica tradizionale, sempre valida perché morale e non politica, secondo la quale la vita costituisce il principio e il fine di tutto ciò che è umano, compresa la sofferenza. Perciò non si è autorizzati legalmente ad auto sopprimerla, e men che meno ad aiutare chi vuole a farlo, anche quando purtroppo non si vede altra soluzione e ragione convincente.
Certamente, oggi le cose sono cambiate rispetto al passato, nel senso che l’allungamento dell’esistenza, la crescita di cure che ne tutelano la permanenza nel tempo, ha allargato le speranze personali, talvolta estenuando le sofferenze finali.
Conviene, in ogni caso, essere estremamente chiari: l’accanimento terapeutico è illecito e illegale, oltre che immorale. Ciò che inizia per natura, deve terminare per natura, senza rendere contro natura ed artificiosa la sopravvivenza; anche se, ovviamente, quanto può essere fatto con la medicina per salvaguardare e promuovere la vita è sempre positivo, rappresentando, da Ippocrate in giù, il fine ultimo della nobile arte scientifica della guarigione.
Il problema si pone, viceversa, a proposito di malattie terminali, e, cosa ben diversa dalla precedente, a proposito di condizioni permanenti di menomazione delle potenze esistenziali, come ad esempio per i pazienti in stato vegetativo permanente o con forti handicap.
Il criterio etico fondamentale, superiore alle leggi dello Stato e di qualsiasi Corte o Parlamento internazionale, è, e resta sempre, “pro life”. La vita è origine di ogni altro valore reale. La vita si aiuta con la vita e non con la morte. La vita va sostenuta sempre anche quando giunge la morte. La morte è parte della vita e del suo essere determinata così, in modo finito e temporaneo, nell’umanità di ogni persona.
Certamente vi sono casi in cui la sofferenza è atroce e il destino ineluttabile. Per tali situazioni la Consulta ha decretato che il suicidio di chi abbia manifestato liberamente e autonomamente la propria volontà testamentaria (Dat) non è di per sé ascrivibile ad un reato, rimandando tuttavia al Parlamento il compito finale di rendere legge precisa questa indicazione generale.
A essere precisi, vi sono due casi di eutanasia: quella passiva, con la quale un paziente rinuncia direttamente alle cure; quella attiva, con la quale il paziente richiede positivamente che sia determinata la sua morte. Quest’ultima poi può avvenire con il concorso diretto e cosciente del paziente, oppure soltanto sulla base di sue specifiche indicazioni.
Il punto centrale è il concorso altrui, che sempre deve essere introdotto nel percorso eutanasico. Un conto è, infatti, se una persona si lascia morire o se rinuncia a terapie volte solo a prolungare una sofferenza inutile; altra cosa è se il processo che conduce alla morte è accelerato e favorito “causalmente” dall’azione di altre persone che divengono direttamente responsabili di tale azione.
In questo secondo caso, l’eutanasia non solo è inammissibile moralmente, ma intollerabile, attivando la responsabilità di medici che si troverebbero obbligati dalla legge, dalla volontà di un malato o di familiari, ad essere collaboratori di morte. La Cei, giustamente, si è appellata all’obiezione di coscienza individuale, opzione che può essere fatta valere da un medico nei casi di aborto. Ricondurre però la fattispecie esclusivamente alla coscienza del singolo non basta.
Lo Stato non può e non deve essere attore di una pratica di morte: in primis perché lo Stato siamo tutti noi, ossia persone oggettive e soggettive; in secundis perché anche un magistrato o un delegato pubblico libererebbe un medico dalla decisione solitaria, ma non solleverebbe se stesso e il medico dall’azione omicida.
La medicina è un’ars magna perché collabora con tutti i mezzi a salvare, curare e accompagnare gli esseri umani nella vita, che è fatta di piaceri e di dolori, che ha dei tempi di vigore ed energia, ma anche dei tempi di malattia e sofferenza.
Nessuno può decidere fino a che punto la vita valga la vita, perché nessun uomo è arbitro della vita, avendo ricevuto la vita stessa e non potendo creare sopra di essa limiti e contorni di legittimità.
In gioco qui è il limite e il valore della nostra libertà, una volontà che è tanto certa e valevole quanto è appartenente alla vita stessa della persona, non avendo il dominio sull’essere che la fa essere, ma essendone semmai manifestazione peculiare e non esaustiva della stessa esistenza personale.
Sarebbe facile chiamare in causa il mistero del nascere e del morire, di cui non sappiamo niente; ma è sufficiente rendersi conto che quello che siamo non è soltanto coscienza e volontà. Perciò nessuna coscienza o volontà può essere sovrana in senso assoluto sulla vita che la fa essere. Nessuna persona può essere indotta, direttamente o indirettamente, a dare la morte e se stessa o ad un’altra persona. Oltretutto, uno Stato che decide di autorizzare o agevolare la morte, uno Stato che si arroga legalmente il compito di obbligare un medico a procedere in tal senso contro la vita di un’altra persona, è uno Stato che decreta la sua onnipotenza surrettizia, unendo questo potere illegittimo alla fine della sua oggettività giuridica, sancendo così il declino irreversibile di una civiltà etica e giuridica europea costruita dall’origine sulla trascendenza intangibile della persona. L’eutanasia di Stato è, in definitiva, il certificato di morte dell’Occidente cristiano, compilato sulla base del più ferreo, fallimentare, superficiale, terrorizzato, nichilista e squallido individualismo relativista.