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Lega batte FI. Salvini incassa cinque sì per il referendum

Operazione riuscita. La Lega ha ottenuto il sì di cinque consigli regionali necessari ex art. 75 della Costituzione ad avanzare la richiesta di un referendum costituzionale. Dopo una corsa al cardiopalma alla ricerca dei voti mancanti e una giornata di tensioni con gli alleati di Forza Italia i leghisti possono cantare vittoria. I consigli regionali di Veneto, Lombardia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Liguria hanno dato il loro benestare. Lunedì mattina si potrà dunque depositare in Cassazione il quesito referendario.

Il piano del senatore leghista Roberto Calderoli, abbracciato subito e cavalcato dal leader Matteo Salvini, prosegue secondo i tempi previsti. Perfino in anticipo, se è vero che il segretario del Carroccio aveva dato ordine perentorio ai suoi consiglieri regionali di far votare la richiesta di una consultazione popolare entro e non oltre il 30 settembre, data ultima per tentare un assalto alle urne in primavera. La strada non è ancora in discesa, anzi. Fra i leghisti e il voto si frappongono i giudizi di legittimità e ammissibilità affidati rispettivamente a Corte di Cassazione e Corte Costituzionale. Quest’ultima si è più volte espressa sul tema, tracciando una netta linea rossa: qualsiasi nuova legge elettorale deve risultare immediatamente applicabile. E a detta di gran parte dei giuristi c’è il rischio che una semplice abolizione della quota proporzionale del Rosatellum, ut Calderoli vult, lasci in vita una legge elettorale monca, e destinata alla ghigliottina della Consulta.

“Mentre il Pd e M5s tolgono il diritto di voto, noi lo diamo. Gli italiani potranno scegliere” esulta comunque Salvini dall’Umbria, dove è impegnato in un tour stracittadino per sostenere la candidata leghista (e del centrodestra) Donatella Tesei. In fondo quel sì di cinque regioni è stato una prova di forza che lo ha confermato capo indiscusso della coalizione. Si è sfiorata la rottura, quando nella serata di martedì da Arcore sono state date indicazioni ai coordinatori regionali di astenersi sul voto per il referendum. Un messaggio diramato dal loro responsabile, il fedelissimo del Cav Sestino Giacomoni, che ha fatto vivere ore di tensione in casa centrodestra. Nella mattinata di mercoledì i primi ammutinamenti. Il più eloquente è quello di Alberto Cirio, il presidente azzurro della regione Piemonte che in aula ha annunciato il voto favorevole del gruppo forzista contro le indicazioni iniziali dei vertici.

I malumori leghisti (Luca Zaia si è spinto a minacciare di non accettare in liste comuni gli azzurri alle prossime elezioni) hanno costretto Silvio Berlusconi a un passo indietro. Così mentre Veneto, Friuli e Sardegna annunciavano i primi tre sì il partito ha ingranato la retromarcia. Prima concedendo ai consiglieri “libertà di voto”. Poi addirittura indicando il voto a favore, con la postilla di accostarvi un ordine del giorno pro-presidenzialismo. In serata Forza Italia ha tirato le somme: Salvini ha vinto su tutta la linea. Non è bastato un documento unitario sottoscritto dai gruppi parlamentari a sotterrare il malcontento.

A dire il vero a fine giornata Salvini non l’ha ancora spuntata. Il voto decisivo del Piemonte non arriva perché manca il numero legale. Gli occhi sono puntati sulla Liguria di Giovanni Toti, in bilico fino all’ultimo perché la maggioranza assoluta (16) si regge su un solo voto e un consigliere azzurro, Claudio Muzio, è in gita con un gruppo di studenti del liceo nei luoghi dell’esodo giuliano-dalmata. Attimi di suspance, interrotta questa mattina da una svolta inaspettata. La maggioranza c’è e il voto favorevole pure. Ci ha messo la firma Giovanni Boitano, consigliere di una lista civica affiliata al Pd alle scorse elezioni e subentrato in Consiglio al posto della dem Raffaella Paita, approdata nel frattempo alla Camera.

Oggi riprenderà l’esame della proposta anche in Abruzzo. Lì ieri i veleni fra vecchi alleati leghisti e grillini sono quasi sfociati in una rissa da bar. Complice un blitz dell’ex candidata alla regione pentastellata Sara Marcozzi, oggi vicepresidente della Commissione Bilancio dove era prevista la discussione sulla consultazione. Un ritardo di una mezz’ora del presidente leghista di commissione Vincenzo D’Incecco le ha permesso di chiudere in 5 minuti la seduta e rinviarla al 4 ottobre, fuori tempo massimo. Arrivato trafelato D’Incecco ha riaperto i lavori dichiarando illegale il rinvio. Fra emendamenti, contro-emendamenti e minacce di ricorso al Tar la zuffa si è placata solo in tarda serata, con l’intervento dei Carabinieri.



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