Oggi, giornata del migrante e del rifugiato, è un giorno da vivere anche con e per la memoria. È importante ricordare anche in occasione di un giorno come questo. Un giorno che non può essere capito appieno se non ricordiamo, ad esempio, la prima emergenza profughi vissuta dal nostro Paese. Che emergenza fu? E cosa facemmo? Facemmo bene a comportarci come ci comportammo? Vediamo.
Era l’autunno del 1956 quando le truppe sovietiche entrarono a Budapest con circa 4mila carri armati e oltre 70mila soldati. Soldati dell’armata rossa ovviamente. L’invasione si risolse presto con l’arresto del primo ministro ungherese, Imre Nagy. Da quel 10 novembre 1956 in avanti fuggirono dall’Ungheria circa 200mila profughi, in un arco molto breve di tempo. Se la maggior parte del profughi andò a stabilirsi in Germania e in Svizzera, ben 10mila di loro arrivarono qui da noi, in Italia.
Fare memoria di questo aiuta a capire che nonostante le precarie condizioni economiche di vita quegli uomini e donne che cercarono riparo nel nostro Paese non erano “migranti economici”. Erano esuli, esiliati politici, perseguitati politici, ai quali fu giusto aprire le porte.
Fare memoria di quei giorni e di quegli eventi è importante anche per rendersi conto che non sono i “comunisti” a guardare con favore all’accoglienza: al tempo il Pci solidarizzò con Mosca, non con chi fuggì da Budapest.
Ricordare aiuta a rendersi conto che se oggi l’Ungheria non è ospitale con i profughi, ciò non vuol dire che sbagliammo allora. Anzi, è probabilmente la conferma che fu una scelta giusta, nonostante l’attuale premier ungherese Orban. Perché? Per non essere considerati suoi precursori, ma figli della nostra cultura. Orban potrà essere il prodotto della cultura creata da quell’invasione, forse, non certo dalla nostra mancata solidarietà con i suoi connazionali.
Nel messaggio per la giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati Papa Francesco non ha ricordato la cura che il cardinale Giacomo Lercaro e l’Università di Bologna prestarono a tanti ungheresi che giunsero in quella città, quella che poi sarebbe diventata famosa come la Bologna “comunista e consumista”. La rivista Tempi ha ricordato che un primo treno con 2/3mila profughi dell’Ungheria arrivarono a Bologna già tra l’8 e il 9 novembre, prima del golpe, quando il destino era chiaramente segnato, essendo i guai cominciati già in ottobre. Poi, ha scritto sempre Tempi, il nostro governo autorizzò l’organizzazione di centri di accoglienza e tra il 22 novembre e il 17 dicembre vi trovarono riparo 3.480 rifugiati ungheresi. Sul nostro territorio nazionale i centri di accoglienza furono 16. Altri tempi? Altri tempi, ma stesso Paese, stesso popolo, stessa “cultura”…
Oggi non sembra andare così per tanti motivi, anche per propagande che non presentano i rifugiati come tali, e fanno in modo che non tutti si rendano conto che in gioco prima del loro destino c’è la nostra umanità, il nostro bagaglio culturale di “popolo”. Spendemmo 246,8 milioni di lire per ospitare i profughi ungheresi? Sì, li spendemmo, e difficilmente i fautori del concetto di “popolo” potranno negare che furono spesi in favore dei valori e dei sentimenti del popolo italiano.
“La risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee – ha scritto Francesco nel messaggio per la 105° Giornata mondiale del migrante e del rifugiato – sta in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”.
Guardata così la giornata odierna diventa tremendamente importante e dire “aiutiamoli a casa loro” non fa che ricordarci che forse le autorità ungheresi allora non volevano che quei profughi tornassero a casa loro, e che oggi molti dei nuovi una casa non ce l’hanno più, distrutta da qualche guerra, da polizie feroci, da terroristi nichilisti o da carestie devastanti. Ha scritto una migrante: “Chi mette in mare i suoi figli se la terra è più sicura del mare”? Già, chi lo farebbe?