Elezioni amministrative. Siamo alle solite: percentuali di votanti al primo turno in forte calo. A Roma è andato a votare un elettore su due. Si sprecano così le analisi sociologiche sulla disaffezione, sulla crisi della politica e quant’altro fa vendere (sempre meno) i giornali e tirare a campare ai talk show.
E’ il consueto metodo di complicare le cose semplici, perché, nel caso di Roma ancor più che in altre città, ci sarebbe da stupirsi se a votare fossero andati in numero maggiore. Diciamo la verità: l’astensionismo non è un prodotto della cattiva politica, ma dell’imbecillità; non sono i romani ad esserne affetti, ma il personale politico che ha preteso di candidarsi. Mettiamoci per un momento nei panni di un cittadino dell’Urbe a cui la politica ha offerto diciannove candidati sindaci, alcuni alla testa di liste che sembravano uscite dal film “Il dittatore dello Stato libero di Bananas”.
Gli slogan elettorali di tutti questi “Re per una notte” evocavano le pulsioni più sordide dell’antipolitica nel tentativo di lucrare facili consensi. Ovviamente l’elettore romano non poteva che sentirsi offeso da candidati che lo trattavano come un deficiente a cui offrire palline colorate in cambio del voto.
Presentandosi, poi, ai seggi, per il nostro cittadino vi erano delle conseguenze pratiche: il presidente gli consegnava una scheda lunga almeno un metro che lo costringeva ad inenarrabili peripezie per orientarsi nella ricerca del simbolo da contrassegnare, tanto da essere tentato di suggerire ai componenti del seggio di stendere per l’aula dei lunghi e robusti fili, al posto delle cabine, a cui appendere, come fossero lenzuoli, le schede da consultare. Votare è un dovere ed un diritto, sempre ché non si trasformi in un ulteriore episodio della serie “Mission impossible”.
Lanciati alla conquista delle città, i “grillini” se ne tornano con le pive nel sacco: non vincono in nessuno Comune e non entrano neppure nei ballottaggi. Vogliamo sperare che quel fuoco di paglia si stia spegnendo più in fretta di quanto potessimo immaginare. Gli italiani, alle urne, sono sempre stati guidati da una “mano invisibile” che li ha condotti a scegliere sempre il meglio o il meno peggio. Il 24 e 25 febbraio avevamo pensato che la Provvidenza ci avesse voltato le spalle.
Vien da pensare, invece, che gli elettori si siano accorti dell’abbaglio e si stiano pentendo di aver mandato in Parlamento un branco di studenti fuori corso (la definizione è di Giuliano Amato) e di disoccupati organizzati, presi direttamente dalle liste del collocamento. Ma lo avete osservato bene Marcello De Vito, candidato del M5S a sindaco della Città eterna? Può essere preso sul serio un movimento che si fa rappresentare dal sosia di Pippo Franco?
Il Pd tira un sospiro di sollievo: stare al governo con il Pdl non lo penalizza ulteriormente. Per l’alleato-avversario, invece, le elezioni amministrative non costituiscono mai un’occasione per dar corso alle migliori performance, anche perché non è possibile candidare ovunque Silvio Berlusconi.
Intanto, Enrico Letta tira avanti rivendicando crescita e lavoro da Angela Merkel, che, lasciando soprappensiero l’ultimo vertice della Ue, dimentica di salutarlo. Dal canto suo la Procura ed il Gip di Taranto continuano ad accanirsi nei confronti dell’Ilva che sostiene l’occupazione e l’economia di una vasta area del Mezzogiorno ed è un pezzo strategico del nostro apparato produttivo. Eravamo convinti che fosse arrivato il momento di una tregua, dopo il decreto legge del Governo Monti, convertito a larga maggioranza dal Parlamento nella passata legislatura, poi ritenuto corretto da parte della Consulta a cui era ricorsa la Procura di Taranto.
La stessa convinzione si era ancor più rafforzata dopo lo sblocco del prodotto finito (quando mai dei freddi pezzi di acciaio incorporano in sé il reato!) che giaceva da tempo sulle banchine del porto, senza che l’azienda potesse incassare quelle risorse utili a pagare le competenze spettanti ai lavoratori. E’ venuto invece il momento del blocco dei beni della famiglia Riva, ponendo sotto sequestro, così, le risorse da impiegare nell’opera di risanamento; di conseguenza sono arrivate le dimissioni del Consiglio di amministrazione, incluse quelle di Enrico Bondi.
Io mi auguro che l’opinione pubblica si stia accorgendo della gravità della vicenda Ilva. Per dare una dimensione parziale – limitata soltanto ai posti di lavoro in pericolo – di quanto può succedere nei prossimi giorni, basti pensare che il ministro Enrico Giovannini ha allo studio un progetto per occupare 50mila giovani attraverso la cosiddetta staffetta intergenerazionale: il lavoratore anziano trasforma a part time il suo rapporto, mentre un giovane subentra con il medesimo regime. Ebbene, tra dipendenti dell’Ilva e dell’indotto, sono a rischio – si stima – 40mila posti di lavoro, a causa di una guerra aperta senza esclusione di colpi che un gruppo di magistrati ha dichiarato al più grande stabilimento siderurgico d’Europa.
Se il Paese vuole imboccare la via della crescita ed invertire la spirale del declino farebbe sicuramente meglio a regolare un po’ di conti in casa propria piuttosto che prendersela con la Cancelliera tedesca. Il nemico più insidioso è sempre quello che sta alle spalle.