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Forza economica e pressioni politiche. Ecco come Pechino isola Hong Kong

Hong Kong è un argomento delicatissimo e praticamente intrattabile per chiunque davanti a Pechino. Ne è testimonianza l’atteggiamento soft adottato dal principio da Donald Trump, che invece solitamente è la voce ruggente contro la Cina di questa fase storica. Secondo il Financial Times (mai smentito) pare ci sia stato un accordo tra l’americano e Xi Jinping al G20 di Osaka, in cui il primo avrebbe promesso all’omologo cinese di non utilizzare le proteste hongkonghesi tra gli argomenti retorici del contrasto Usa-Cina. Si è poi scoperto, tramite fonti della CNN, che la  promessa di non affrontare di petto il tema HK, Trump l’avrebbe fatta durante una telefonata del 18 giugno, quando chiese a Xi approfondimenti sul conto delle relazioni in Cina di due sfidanti Democratici alla presidenza: Elizabeth Warren e Joe Biden.

Non cambia il risultato: nei giorni successivi al meeting un discorso che si annunciava duro del console americano nell’ex colonia britannica è stato congelato dal dipartimento di Stato.

L’obiettivo per Trump è ottenere qualcosa in più riguardo a un accordo commerciale. Per questo non intende indispettire Pechino su una faccenda che per i cinesi è esistenziale. Ma adesso sappiamo che negli interessi del presidente c’era anche quello di carattere elettorale personale. Tuttavia tutto continua a reggersi su equilibri gracili.

Tanto più perché Pechino invece usa la propaganda anti-americana per giustificare con la disinformazione la lettura della crisi come una faccenda di sicurezza nazionale. E alla fine quell’accusa cinese “c’è la Cia dietro alle proteste” s’è tradotta nella dichiarazione congiunta a conclusione del recente G7, in cui tutti i grandi del pianeta si sono allineati su una richiesta di calma, controllo e tolleranza, indirizzata a Pechino come un monito (sotto sponsor americano, davanti al rischio di uva mattanza repressiva).

Risposta automatica dal ministero degli Esteri cinese: la posizione presa dal G7 è da “condannare”. La Cina – che ha la responsabilità della sicurezza e della politica nel Porto Profumato – dichiara di essere assolutamente in grado di gestire le proteste.

Linea a cui fa eco la Russia, particolarmente ansiosa di sottolineare lo schiacciamento di visioni con i cinesi ovunque possibile (aspetto che in questo momento storico è l’asset più forte per competere con l’Occidente). Se il governo cinese chiama le manifestazioni “riots”, inglese per sommosse, anche Mosca segue: d’altronde le settimane centrali delle proteste di Hong Kong si sono sovrapposte con quelle simili che hanno pervaso la Russia, dove le opposizioni sono scese in piazza – anche lì a prendere manganellate repressive – per protestare contro la completa esclusione delle proprie liste dalle elezioni locali.

Se l’asse occidentale ha preso una linea comunque critica e a tratti severa – quella di altri apparati americani che hanno bilanciato la posizione più tenera della Casa Bianca, per esempio, con dichiarazioni più dure sul non rispetto dei diritti umani a Hong Kong, effetto evidente della cinesizzazione contro cui si protesta – Russia e Cina hanno dimostrato che l’allineamento dei regimi autoritari è un tema che interessa le relazioni internazionali presenti e future. E una sfida per i valori democratici dell’Occidente.

Per ovvie ragioni storiche, il primo Paese a tenere invece il punto fermo davanti alla Cina è stato il Regno Unito. Quello inglese, a luglio, è stato il primo governo a richiamare l’ambasciatore cinese per chiedere chiarimenti, vicenda che è passata per commenti velenosi, con il rappresentante di Pechino che ha definito “vergognose” le critiche del Regno Unito per la gestione della situazione a Hong Kong, evocando la fine dell’era coloniale, e Londra che invece ha sottolineato come l’accordo di riconsegna del 1997 sancisce tra le altre cose il rispetto dell’autonomia giudiziaria, legislativa ed esecutiva del Porto profumato, i diritti e le libertà dei suoi cittadini, all’interno del noto quadro “Un paese, due sistemi”.

Gli inglesi alle prese con la Brexit non si sono tirati indietro su certi impegni nell’ambito della necessità di confermare traiettorie storiche e rinnovare la propria proiezione esterna, con l’asset principale piazzato sul rafforzamento di quelli geopolitici con gli Usa, ma che non può prescindere dal mantenimento dei rapporti economici e commerciali con la Cina.

Il quadro è chiaro al momento. La Cina cerca di sfruttare la forza economica (seppur indebolita) per pressare posizioni politiche. E la crisi di Hong Kong non ne è immune. L’internazionalizzazione politica ancora non c’è stata, le cancellerie europee, per prima l’Italia, non hanno preso posizioni forti se si esclude casi puntuali come la reazione dal G7. Pechino da parte sua sta cercando di usare il pugno duro senza esagerare, sebbene la violenza cresca. La scelta cinese è dovuta a una necessità: sa che finché il livello di intensità delle repressioni è tenuto sul punto critico (ma accettabile), può controllare le reazioni globali. Senza misura, la Cina ha solo tutto da perdere, perché il piano per trasformarsi in potenza globale di riferimento non può sovrapporsi a clamorose azioni illiberali sanguinose stile Tienanmen. A Pechino non resta che allungare i tempi: potrebbe permettere di annacquare le proteste e dividere i manifestanti, senza che dall’esterno le voci contrarie si alzino troppo.

Adesso andranno valutate le conseguenze dell’applicazione della draconiana legge sullo stato d’emergenza, in vigore da venerdì, per comprendere se ci saranno cambiamenti nell’approccio di Pechino a uno dei più imbarazzanti problemi che Xi Jinping si sta trovando davanti nell’anno del 70esimo cinese.

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