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Giravolta di Trump sulla Siria. Ora si schiera con la Turchia

L’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha dato il via libera — con un comunicato di disimpegno diffuso poche ore fa, dopo una telefonata con Recep Tayyp Erdogan — al piano turco di invadere il nord della Siria. È un’operazione militare attesa da tempo, perché Ankara non condivide che quell’area al confine sia controllata dai curdi locali, che per la Turchia sono alleati dei curdi turchi, considerati nemici, ribelli e terroristi. Washington comunica di affidarne la gestione alla Turchia.

La minoranza siriana vive quel territorio settentrionale nel Paese con un obiettivo ideologico, il Rojava, uno Stato indipendente che negli ultimi cinque anni ha acquisito via via potenzialità più consistenti, e per questo il governo turco — che ha piazzato nei curdi il nemico attorno a cui costruire parte della sua propaganda — da tempo freme per combatterli.

Ankara detesta la possibilità di una qualche indipendenza curdo-siriana perché credono che possa essere un precedente che faccia da base per le istanze simili dei curdo-turchi. Ma all’interno di tutto questo contesto, non può sfuggire il ruolo degli Stati Uniti e di Trump nello specifico, che con l’approvazione della campagna turca ha stravolto anni di policy.

Stravolto è un termine preciso: vediamo perché. I curdi siriani sono coloro che hanno dato il maggiore contributo tecnico e di sangue per combattere lo Stato islamico, che aveva infestato quell’area — dove per esempio si trova Raqqa, un tempo roccaforte siriana del Califfato — e lì ha piazzato parte della sua dimensione statuale sfruttando il caos del conflitto civile siriano. Il terrorismo fatto stato tra Siria e Iraq che ha fatto da base logistica e da ispirazione per una serie di attentati e affiliazioni in giro per il mondo.

Gli Stati Uniti annunciano di voler tirare fuori il Paese dalla Siria davanti all’inizio dell’attività turche: quel posizionamento americano finora ha protetto i curdi siriani, alleati fedeli ed efficaci in quel piano anti-Isis che resterà nei manuali di guerra (un’operazione ibrida composta dalle milizie curde Ypg coordinate sul campo dalle forze speciali Usa e protette dall’alto dagli aerei di una coalizione internazionale, guidata dagli americani, a cui dozzine di Paesi hanno dato supporto per combattere il Califfo e per addestrare le unità locali).

Questo allineamento ha da sempre scontentato Ankara ed è alla base del deterioramento dei rapporti con Washington. Più di una volta Erdogan ha usato parole dure contro gli Usa, accusandoli di combattere dei terroristi (l’Is) usando altri terroristi (i curdi siriani). È a seguito di questa policy americana sulla Siria che la Turchia ha scarrellato su un allineamento diplomatico al fianco di Russia e Iran. La questione siriana è alla base della polemica S400/F-35 per esempio. I turchi non hanno mai accettato che gli Stati Uniti non usassero loro come alleati; gli Usa invece hanno scelto i curdi perché più affidabili ed efficienti.

Una linea finora sempre confermata. Washington non voleva tradire gli alleati e permettere l’inizio di un nuovo scontro militare in Siria, sebbene il dossier fosse irrisolto. Trump ha resistito per lungo tempo su questa posizione che è stata costruita dal suo predecessore, Barack Obama, e che era una delle politiche confermate dall’attuale amministrazione (che ha fatto di tutto invece per cancellare le decisioni precedenti).

Adesso arriva questo cambio di rotta con rischi enormi. Lo scontro è altamente probabile, un contro-comunicato curdo dice già che “sarà guerra totale”. I curdi siriani, attaccati dalla Turchia e traditi da Trump, potrebbero cercare un’alleanza con il regime, che tecnicamente è titolare sovrano di quel territorio che gli Usa hanno consegnato ai curdi e che la Turchia vorrebbe liberare anche con l’idea di ricollocarci parte dei tanti profughi siriani ospitati. Si creerebbe un quadro ancora più complesso, con Damasco in contrasto con Ankara; e non va dimenticato che la Turchia non è alleata siriana, anzi tutt’altro, mentre ha una partnership strategica con Russia e Iran.

Un’altra problematica importantissima connessa a questa decisione riguarda l’anti-terrorismo. I curdi siriani hanno nei loro campi di detenzione migliaia di prigionieri baghdadisti. Molti sono anche cittadini di Paesi stranieri — i cosiddetti foreign fighters, coloro che affascinati dalla potenza statuale del Califfato si sono spostati in Siraq per sostenere il jihad califfale. Quasi tutti i governi interessati dal fenomeno, per ora, hanno sfruttato lo status quo per rimandare la decisione su cosa farne di quei soldati del Califfo che portano in tasca il loro passaporto. C’è una complessa situazione giudiziaria da sviscerare per comprendere come gestirli. Una questione nota, che ha già prodotto tensioni.

È un tema enorme: secondo il comunicato della Casa Bianca ora quei detenuti saranno una responsabilità turca, e vengono incolpati direttamente Francia, Germania e altri Paesi europei per non essersi presi la bega di decidere la gestione, che — dice Trump — non può più pesare sui contribuenti americani. La dimensione di sicurezza è l’aspetto sostanziale, perché quelle strutture potrebbero finire in mezzo agli scontri armati.

L’esplosione di un nuovo fronte dalle previsioni decennali in Siria potrebbe aprire spazi per la riattivazione delle cellule baghdadiste che si sono disperse nel Paese dopo la sconfitta subita dai curdi e dalle forze dell’Occidente guidate dagli Usa. Il rischio è che, indeboliti per la necessità di contrastare i turchi, i curdi abbassino la guardia attorno alle carceri, e si ripeta quanto già successo in Iraq nel 2014, quando a sfondare i cancelli delle carceri irachene in cui gli americani avevano rinchiuso i qaedisti fu il Califfo Abu Bakr al Baghdadi in persona, dando il simbolo di quanto quel momento fosse importante.

Non si lasciano indietro i compagni, la liberazione come processo di superamento del nemico, ma anche come fase iniziale di rafforzamento. Gli esegeti del gruppo baghdadista hanno poi scoperto che le galere avevano fatto anche da centro d’ispirazione, organizzazione e reclutamento. Cosa potrebbe succedere se il sistema di detenzione curdo-americano collassi sotto la guerra turco-curda in Siria?

C’è infine un argomento interno per Trump. Il presidente è apertamente in rotta con alcuni apparati, come l’intelligence e le aree di pianificazione del Pentagono e del dipartimento di Stato. Viene contestato questo suo modo di agire al di fuori dei protocolli e al di fuori delle traiettorie storiche e pensate dalle costruzioni tattico-strategiche americane. Gli viene contestata la velocità e la superficialità con cui in certe occasioni mette in discussione una postura di lunga gittata in nome di interessi contingenti. Come per la volontà di ritirare le truppe che hanno appoggiato i curdi dalla Siria, anche per l’abbandono dei curdi Trump trova ampie opposizioni interne.

Il ritiro è stato annunciato nel dicembre 2018, il presidente diceva che i soldati sarebbero stati fuori dal Paese nel giro di un mese ma sono ancora lì. Anche in quel caso accusava i partner occidentali di scarso impegno, prometteva dalla campagna elettorale di chiudere certi fronti che per gli americani sono solo un costo. Alcuni soldati nel frattempo hanno condotto costanti attività di pattugliamento con unità turche, ed era sembrato il metodo migliore per mantenere il delicato status quo. Ora la Casa Bianca ha dato via libera al piano siriano di Erdogan — un presidente che ha fatto del conflitto interno con i curdi una questione etnica.

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