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Tutti i dubbi di Polillo sul taglio “secco” dei parlamentari

È rimasta solo Emma Bonino (e pochi altri) a mantenere alta la dignità del Parlamento italiano. Per il resto solo cattiva e falsa coscienza. Cattiva, nel ricordo dell’impotenza dimostrata nel prendere di petto i veri problemi del Paese. Quella stagnazione, quasi secolare, che secondo l’ultimo report dell’Ocse, di qualche giorno fa, vede l’Italia sprofondare nelle classifiche internazionali. Con un tasso di crescita, dal 1995 in poi, leggermente superiore solo al Brasile e l’Argentina. E comunque maglia nera all’interno dell’Europa. Una condizione destinata a durare almeno fin quando una nuova classe dirigente non si dimostrerà capace di afferrare il corno per le corna. Di piantarla con i piagnistei e rimettere in moto le lancette di una storia patria che dalla metà degli anni ’80 – quando l’Italia era ancora competitiva – sembra essersi arrestata.

Falsa coscienza nel ritenere che un piccolo risparmio – 70 milioni all’anno o giù di lì – sia il toccasana per un malato cronico, come l’Italia. È come se ingegneri incapaci, che sbagliando i calcoli fanno crollare i ponti, si riducessero lo stipendio, invece di colmare le lacune della propria preparazione. Il committente spenderà di meno, ma i ponti continueranno a crollare. La cosa più grave è stato il cedimento rispetto all’impostazione dei 5 Stelle: bravi nel cavalcare un malcontento popolare, più che giustificato. Ma incapaci di proporre una soluzione – una che sia – ai problemi del Paese. Roma docet. E non si venga a dire che i rapporti di forza, in Parlamento, sono quelli che sono. Lo erano, prima delle elezioni europee, ma oggi il panorama non è più lo stesso. Passata la sbornia iniziale, si è visto che i rimedi proposti erano peggiori del male che si intendeva curare.

Ma tutto ciò non è servito a mitigare un sentimento “anti casta” che è l’unica vera motivazione del comportamento di maggioranza ed opposizione. Naturalmente un ponderoso documento sarà l’ennesima foglia di fico per giustificare la voglia di resistere ad ogni costo, nel difendere il precario equilibrio politico di questa legislatura. Sarà così? I dubbi sono più che legittimi. Nelle forze che compongono questa maggioranza manca una visione comune, sulla quale costruire una possibile risposta programmatica. Per molti versi sono agli antipodi. Ci sarà una legge elettorale proporzionale: come unico riflesso di un restringimento del quadro della rappresentanza politica? Quindi uno sbarramento che porterà la soglia minima intorno al 10%? Avremo di nuovo la palude della Prima Repubblica, senza avere più l’organizzazione di quei grandi partiti che hanno consentito all’Italia di superare i momenti più drammatici della sua storia. E ci sono, poi, le forze in Parlamento per questo ritorno al bel tempo andato?

Ma se anche fosse possibile, vista la spada di Damocle del referendum proposto per abolire la quota proporzionale dell’attuale legge elettorale, come risolvere il rebus della governabilità che da sempre è stato la palla al piede della storia italiana? Non era meglio andare avanti con prudenza? Sciogliere i nodi che avviluppano una Carta costituzionale indubbiamente longeva, ma proprio per questo bisognosa di manutenzioni di carattere straordinario? Certo 630 deputati e 315 senatori, senza considerare quelli a vita, forse, sono troppi. Nella maggior parte degli altri Paese sono molto meno, come ci dicono tutte le analisi comparate. Ma forse il limite dei politici italiani non è tanto un numero eccessivo, quanto una cultura che non si è dimostrata all’altezza dei problemi da affrontare.

Dubitiamo che la cura dimagrante sia il miglior viatico. Avremo qualche peone in meno. Ma in una scacchiera è giusto sacrificare un pedone per salvare una torre o un alfiere, per non parlare del re o della regina. Avremo quindi una scrematura, ma i leader rimarranno al loro posto. Sebbene siano stati loro i principali responsabili della piccola Caporetto italiano. In cui non si vede alcun Armando Diaz all’orizzonte, capace di rovesciare il fronte e riconquistare il terreno perduto. Fino alla vittoria finale. Ovviamente il riscatto eventuale non è programmabile in anticipo. Quindi certe critiche, come le nostre, sembrerebbero voler menare il can per l’aia. Ma la cosa peggiore è sparare contro un falso bersaglio, mentre Annibale è alle porte.

Senza pensare poi alle conseguenze. L’obiettivo dichiarato dei 5 Stelle è la cosiddetta “democrazia diretta”. Meglio teleguidata, come in un libro di George Orwell, dall’opacità di una rete, gestita da un privato. Le cui certificazioni, a posteriori, lasciano il tempo che trovano. Ed essa passa inevitabilmente per l’abolizione del divieto del mandato imperativo. Nobile istituto che risale ai tempi dello Statuto Albertino e che ha scandito l’evoluzione della storia istituzionale italiana. Non avremo più rappresentanti del popolo italiano, ma semplici “portavoce”. Qualcosa che non esiste in nessuno Stato democratico. A parole il Pd ha dichiarato la sua indisponibilità: basti ricordare il deliberato della sua direzione – la difesa della democrazia rappresentativa come principio non negoziabile – prima di enunciare la sua disponibilità alla formazione del nuovo governo. Ma queste sono come le parole del Duca di Mantova, nel Rigoletto nel cavalcare o: “la donna è mobile, qual piuma al vento, muta d’accento e di pensier”. Speriamo che questi siano solo cattivi pensieri.


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