Partire alla volta di Beirut vuol dire sempre fare i conti con diverse agende. Il Libano infatti è ormai parte integrante di quell’inestricabile conflitto siriano che a Beirut ha gli occhi e gli assilli dei profughi siriani. Sono dei fantasmi, non si vedono, non si sa dove vivano, né come vivano. Ma sono tantissimi, ovunque, nascosti nei garage, nei retrobottega, tra vecchi edifici pericolanti.
Sono odiati da tutti, perché loro, con le loro vite, spezzerebbero la bilancia demografica tra cristiani, sunniti, sciiti, la vecchia ossessione del Libano, dai tempi dei palestinesi. Ma loro, i palestinesi, minacciarono quell’equilibrio per scelta, volevano farlo e c’era l’Olp, pronto a imporre con i feddayyn i suoi posti di blocco e spezzare Beirut. Ecco l’ossessione che portò i cristiani falangisti a compiere, con le loro mani, il massacro di Sabra e Chatila. Oggi Sabra e Shatila, a due passi dalla cittadella dello sport, è un campo di siriani, ma nessuno deve dirlo, se si vuole evitare che la storia si ripeta. Basta salire nel cuore della città cristiana, a piazza Sassine, per vedere cosa sia la “cristianità” nelle vetrine dei vecchi negozi.
Allora ci volle un sinodo della Chiesa cattolica per pronunciare il mea culpa e riconoscere che la Chiesa aveva visto i suoi figli “essere uccisi, uccidere e uccidersi tra di loro”. È così, perché allora ci furono tanti cristiani a schierarsi al fianco dei palestinesi. Oggi invece il campo cristiano è compatto nel suo no ai siriani, anche la Caritas Libano li vede con poco gradimento. “Fuori, Fuori tutti”, sbraita il ministro cristiano, confesso razzista, Gebran Bassil. e con lui ovviamente c’è Hezbollah, il vero domino della politica libanese. A suo tempo Hezbollah si impossessò del sud del Libano proprio usando la questione palestinese. Non i palestinesi, sunniti, che gli sciiti di Hezbollah hanno sempre combattuto ben ricambiati, ma la lotta a Israele, nel nome della quale sono rimasti unica milizia in armi anche dopo il ritiro israeliano, armi comunque utili e che oggi Hezbollah usa per ammazzare i siriani, a casa loro o in Libano. È Hezbollah che non ha voluto che in Libano ci fossero tendopoli per questi profughi siriani, per assicurare ai suoi che i siriani, sunniti come i palestinesi, non sarebbero rimasti nel Paese, ad alterare i rapporti demografici tra comunità.
È chiaro che vista da qui la questione curda, nel nord della Siria, sia una questione poco rilevante. Non verrano a Beirut i curdi, andranno altrove, dai loro fratelli iracheni ad esempio. E i cristiani? Anche loro non verranno a Beirut e non sarebbero graditi dai loro correligionari. Andranno altrove anche loro. Beirut ha a che fare con il crollo della lira libanese, un crollo così verticale che il cambio è ormai impossibile, i dollari non li trova nessuno.
Quando non si è solidali con il primo non si è solidali neanche con il prossimo, è la lezione che Erdogan ha dimostrato di maneggiare con maestria: minaccia di aprire il rubinetto dei profughi, proprio come ha fatto per anni Assad. Tutto sommato è lui il maestro: ha espulso sei milioni di suoi sudditi e sa bene perché. Solo cacciandoli fuori avrebbe potuto impossessarsi della loro case, dei loro risparmi, delle loro miserie, dei loro attrezzi di lavoro e darli ad altri, disperati ma fedeli, gli sciiti del Libano, o dell’Iraq.
Da Baghdad a Beirut si combatte una guerra evidente, chiara, trasparente: questa guerra si chiama “conquista dell’Islam”.
La combattono i successori dei grandi imperi, i turchi-ottomani di Erdogan nel nord, i persiani-sciiti di Khamanei ovunque, gli arabi guidati dai traballanti sauditi ovunque anche loro. Il vento in poppa lo hanno gli iraniani, Erdogan si accontenterà di una fetta di nord. I persiani invece prenderanno la grande posta, il corridoio che collega Tehran, Baghdad, Damasco e Beirut. Qui i soli che potrebbero giocare la partita di mediatori, di volano di fratellanza tra le comunità piegate da questa tremenda follia identitaria sono i cristiani: straniti, confusi, impauriti, si chiudono invece nelle loro colline, odiano tutti, si arroccano, non sanno che fare. Impossibile non capirli, impossibile non compatirli.
Ma lo sguardo disperato dei profughi siriani attraversa le loro vetrine, i loro Suv, i loro negozi, ricorda a tutti che questa follia finirà e quel giorno i popoli del Levante si dovranno chiedere perché sia andata così. A chi dare la colpa? Certamente all’indice dovrebbero andarci i capi tribù, i corrotti, ma prima di arrivarci altri massacri passeranno, i giovani fuggiranno indignati da questi paesi devastati dal male che comincia sempre dove finisce la capacità di non cercare il nemico in una comunità.
Si riparte, le lacrime europee per le guerriere curde qui non appassionano nessuno, ognuno ha la sua di guerra, e le ideologie di un’Europa fortezza che ragiona di loro come fossero pedine di un gioco indecente lasciano il tempo che trovano. Oggi ci sono i curdi, certo, perché nessuno ricorda Aleppo, Hama, Homs, Deir ez-Zoor, loro però non possono dimenticarsene, perché quelle sono state le loro vite, spese in rivolta contro un tiranno che abbiamo abbracciato come fratello. Solo lui ci rimarrà affezionato nella desolata terra siriana.