Per la prima volta dalla fine della dittatura di Pinochet in Cile è stato imposto il coprifuoco. Dopo la giornata infuocata di venerdì, la notte tra sabato e domenica le proteste scattate a inizio settimana per l’aumento dei costi delle tariffe dei mezzi pubblici sono restate particolarmente violente, e oggi se ne conta il bilancio: sette morti a Santiago (forse anche di più), il governo ha imposto lo stato di emergenza; su ordine diretto del presidente Sebastián Piñera, la gestione della situazione è stata affidata al generale Javier Iturriaga, i militari sono tornati per le strade praticamente in assetto da guerra.
La situazione l’ha descritta lo stesso Piñera, che davanti alle critiche per aver militarizzato rapidamente la risposta alle proteste – scatenate soprattutto dalle fasce più giovani della popolazioni, studenti universitari e liceali – ha seguito la scia impostata: il presidente ha inquadrato i manifestanti come “un potente nemico contro cui siamo in guerra”. Un netto cambio retorico rispetto ai primi giorni, quando parlava della volontà di ascoltare le voci dei propri “compatrioti” e di mettersi al servizio del Paese per risolvere la crisi.
Una raffica di disordini a cui la politica cilena, né quella di governo né quella di opposizione, non era preparata. Non c’erano segnali evidenti, non c’erano analisi su quello che stava covando, che si stava caricando al punto di essere pronto a esplodere per la prima protesta banale. Piñera evoca spettri profondi, la guerra bolivariana contro il pilastro neo-liberista sudamericano, ma la nota tangibile in questo momento sembra essere il disagio tra i cittadini cileni – l’esplosivo che ha innescato la crisi.
Come spiega il professor Loris Zanatta (UniBo) in un commento pubblicato a caldo dall’Ispi, sebbene il Cile sia da considerarsi un esempio, una vetrina positiva per la regione sudamericana in termini di standard di vita generali, per “i cileni ciò conta poco ed è giusto che così sia: è inutile predicare a un giovane cileno che i coetanei venezuelani o messicani o cubani se la passano molto peggio; quel giovane non avrà motivo di consolarsi in tal modo: le sue aspettative e le sue frustrazioni sono quelle del contesto in cui vive”.
Chiaro che esista la componente politica pronta a cavalcare la protesta, a sfruttare quel sentimento riottoso che esce dai giovani in strada per fini diretti, a gettare benzina sul fuoco delle dimostrazioni di scontento per arrivare alla summa finale: il sistema neoliberale non funziona, serve altro. “Una pessima idea”, secondo Zanatta, che però valuta anche negativamente il “gridare al lupo”, l’evocare la guerra come tattica difensiva di Piñera, che invece – secondo il docente – dovrebbe occuparsi di quello che secondo il sentimento più diffuso in Cile non funziona: la disuguaglianza.
”È questione di cultura, di percezione, di aspettative: non tutte le società accettano o rifiutano la disuguaglianza allo stesso modo; e quella simbolica risulta spesso più insopportabile di quella materiale. Per una società più povera di quella cilena, il problema sarà soprattutto l’accesso ai beni primari; ma proprio perché il Cile ha fatto tanti progressi, patisce violente reazioni contro quella simbolica: gli obiettivi della violenza dei giorni scorsi lasciano pochi dubbi in proposito”, spiega Zanatta.
Sostanzialmente il punto è questo: se da un lato il Cile, democrazia liberale funzionante in mezzo a situazioni delicatissime, ha una struttura sufficientemente florida se messa in relazione con gli standard della regione, dall’altro lato questa situazione diventa parte del problema. I giovani cileni, percepiscono che – sebbene con dimensione informale – la società cilena ha ancora tratti castali, è chiusa e limitata, divide le possibilità (di studio, di cure mediche, di carriera) in base al ceto di provenienza, non agevola la mobilità sociale, non è ancora sufficientemente liberalizzata.