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Sarà Carrie Lam il capro espiatorio cinese per la crisi di Hong Kong?

Il governo cinese ha pronto un piano per sostituire la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, con un chief executive ad interim che possa gestire il Porto Profumato fino al 2022 (data prevista per la fine del mandato e per la nomina da Pechino di una nuova guida amministrativa nell’ex colonia britannica, in cui il modello “un Paese, due sistemi” vacilla da tempo sotto la pressante cinesizzazione).

La notizia la diffonde il Financial Times tramite fonti cinesi, aggiungendo dettagli importanti — i tempi per esempio: a marzo — a rumors che serpeggiano da tempo. Il Partito Comunista cinese, l’organo politico dell’autoritarismo di Pechino, non è affatto contento di come Lam sta gestendo la risposta alle proteste che durano da quattro mesi. Davanti ai manifestanti scesi in strada per dimostrare il proprio disagio davanti alle pressioni politiche che arrivano dal Mainland, Lam è stata impreparata, debole dal punto di vista amministrativo, incapace da quello politico.

LA POSIZIONE DI LAM

Ha provato vanamente il dialogo, ma ha fallito; ha cercato di usare il rilancio economico (vera forza hongkonghese), ma è andata quasi peggio. Durante una riunione con la potente business community avrebbe addirittura detto che avrebbe dato le dimissioni, se solo avesse potuto; parole arrivate alla Reuters due mesi fa, che hanno fatto il giro del mondo ed esposto non tanto lei quanto Pechino, colpevole di questa gestione eterodiretta sempre più problematica. Chi protesta la considera un fantoccio gestito dalla Cina; chi appoggia i cinesi la vede come debolissima e inadeguata. Risultato: i livelli di approvazione sono ai minimi storici.

FUORIUSCITA IN VISTA?

Farla fuori ripeterebbe quanto successo nel 2005, dopo le proteste del 2004, quando l’ex chief executive Tung Chee-hwa lasciò l’incarico per misteriose “ragioni di salute”, appena dopo aver recuperato la situazione e fatto tornare la calma. Stesso compito che Pechino chiede a Lam adesso, in un quadro molto più complesso e violento, in mezzo a una crisi che ha riverbero internazionale, in un momento delicatissimo per la Cina, che affronta la sfida globale costantemente incalzata sul tema di diritti democratici.

SCONTRI IN CRESCITA

Il livello delle proteste è cambiato via via, dalle manifestazioni pacifiche si è passati a dimostrazioni sempre più forti, con scontri continui con la polizia. Era un piano cinese, spingere a radicalizzare chi scende in piazza per poter incalzare sulla narrativa della rivolta, e anche l’ultimo passaggio ha funzionato: con la dichiarazione dello stato di emergenza promulgata da Lam ha ridotto il numero di partecipanti in strada, ma ha inasprito ulteriormente i toni degli scontri (e della risposta della polizia e degli arresti: tanto che ora i manifestanti chiedono lo smantellamento simbolico del corpo locale).

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