Qual è la funzione del Mediterraneo nell’evoluzione della politica estera cinese? E quale il ruolo del Mare Nostrum nella dottrina del presidente Xi Jinping, la “New Era”? E rovesciando l’ottica, quali tipi di sfide e opportunità crea la presenza cinese nel bacino per le dinamiche regionali?
Rispondere a queste domane dalla complessità enorme e dalle profonde articolazioni è l’obiettivo del ChinaMED 2019, il report analitico redatto da esperti di vari paesi presentato ieri a Roma, durante un symposium internazionale a porte chiuse, organizzato dal ChinaMed Project (www.chinamed.it) e realizzato con il contributo della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale.
Curatore del dossier, che cerca di trovare le risposte alle domande poste in apertura, è il professore Enrico Fardella, associato della Peking University e presidente del progetto ChinaMED, tra i massimi esperti di Cina in Europa. Si parte dalla ricostruzione storica per comprendere il presente, e analizzare il futuro.
Quando Mao era al potere il Mediterraneo era visto come una terra di separazione, intermedia tra i cosiddetti “alleati diretti”, ovvero i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, e quelli “indiretti”, l’Europa. Ma Pechino ha via via modificato le sue visioni. Mentre prima era uno spazio in cui incunearsi discretamente per evitare l’egemonia di Usa e Urss, già con Deng Xiaoping la Cina aveva provato a creare con il Mediterraneo relazioni più simbiotiche.
Il flusso di valore che transita per il bacino, tagliando il mondo Est-Ovest verso le rotte atlantiche, gli ha conferito una centralità strategica che l’ha trasformato nella più importante area di proiezione strategica per la Cina dopo la regione del Pacifico. È un quadrante chiave per muovere interessi. Alcuni esempi: gli investimenti nel porto del Pireo in Grecia, o Haifa in Israele, oppure gli interessamenti per quelli italiani o nordafricani, il posizionamento di una base militare extraterritoriale a Gibuti (snodo di risalita delle rotte che doppiano Bab al Mandeb e entrano nel Mediterraneo da Suez).
Da qui risulta più agile comprendere il ruolo all’interno del quadro della New Era cinese, ossia la dottrina politica costituzionalizzata con con cui il presidente a vita Xi Jinping intende far grande la Cina. “Se la Cina di Deng Xiaoping cercava di tenere un basso profilo a livello internazionale consapevole delle sue fragilità, quella di Xi è una Cina diversa, più sicura e assertiva, e si sente capace di realizzare il ‘Sogno cinese’ un sogno che aspira a riportare il paese a essere ‘zhongguo’ – come i cinesi chiamano la Cina – il paese al centro del mondo”, spiegava su queste colonne il prof. Fardella qualche mese fa, in un’intervista curata dalla direttrice Valeria Covato.
È lo stesso design della Belt and Road Initiative (Bri) a descrivere la transizione che Fardella definisce da “passiva a proattiva”. Il gigantesco progetto con cui Xi sta creando un’infrastruttura geopolitica per collegare la Cina all’Europa ha nel Mediterraneo il suo punto di sbocco sia delle rotte marittime che delle vie terrestri.
Per creare il contesto, allora. La Bri è quell’iniziativa a cui l’Italia ha aderito a primavera (con il governo Conte-1); unico paese del G7 a farlo. Mossa su cui è stata molto criticata perché avrebbe dato eccessiva esposizione verso Pechino, che sfrutta il piano come elemento di penetrazione in – e contro – l’Occidente.
Se nel 2030, come le previsioni dicono, la Cina supererà gli Stati Uniti come economia più forte del pianeta, sarà anche grazie al progetto Bri, alle relazioni geo-economiche che si porterà dietro con Paesi che prima rientravano nella fascia di influenza occidentale, alla contrazione che l’Occidente potrebbe subire davanti alla continua competizione del Dragone, innanzitutto sul piano tecnologico. Competizione non sempre limpida.
Questioni che aprono direttamente lo scenario su rischi e sfide di questo interessamento mediterraneo della Cina. Con Xi, l’interesse cinese per il bacino europeo è cambiato. Se prima era spiccatamente di carattere commerciale ed economico, ora ha un valore geopolitico. Pechino ambisce, come crescente potenza globale, a partecipare alla questioni di sicurezza e stabilità dell’area, ha un interessamento alle politiche (anche estere) dei paesi del Mediterraneo.
Alle precedenti domande se ne sommano altre. È possibile adesso pensare a relazionarsi con Pechino solo all’interno della sfera economica? La risposta probabilmente è no. Sorge allora un’altra questione: dove può la Cina rappresentare un elemento di cooperazione alla pari, un honest broker, quando si tratta di sicurezza e stabilità regionale? Come possono i paesi del Mediterraneo lavorare con Pechino, minimizzando i rischi e massimizzando la cooperazione?