E così, all’improvviso, rispunta una parola un po’ lunga e cacofonica: deradicalizzazione. Si torna a parlare di una prevenzione diversa da quella eccellente delle forze dell’ordine e dell’intelligence, quella prevenzione che deve passare attraverso le strutture portanti della società a cominciare dalla scuola. Si riparte dunque dalla legge Dambruoso-Manciulli che nella passata legislatura fu approvata solo dalla Camera e che il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha definito “uno degli obiettivi” perché il tema va riportato nel dibattito del Parlamento e dell’opinione pubblica “in modo bipartisan” per contrastare al meglio l’estremismo jihadista. È la notizia politica emersa dal convegno sul futuro del terrorismo di matrice jihadista organizzato da Europa atlantica, Centro studi internazionali, Osservatorio React e Formiche (qui le foto dell’evento).
IL JIHADISTA ‘PARTIGIANO’ E LA BOMBA DEI BALCANI
Marco Di Liddo, senior analyst del Cesi, ha illustrato in poche parole un rischio enorme: “Macedonia, Montenegro e Serbia del Sud potrebbero essere il prossimo problema del jihadismo europeo perché non hanno risorse per controllare il fenomeno” e parlare con l’uomo della strada è il mezzo migliore per capire quanto l’ideologia estremista sia sostenuta. In Africa, per esempio, il jihadista “è percepito dalla comunità locale come un partigiano” come avviene nel Mali dove gli estremisti riescono a sostenere la popolazione più dello Stato o delle ong umanitarie. Così, nell’epoca della crescita del populismo, secondo Di Liddo il jihadismo rischia di diventare “un populismo 2.0” perché dà risposte immediate alla popolazione. Senza dimenticare che solo dai Balcani è partito un migliaio di foreign fighter di cui 350 dal Kosovo, ha ricordato Matteo Bressan, direttore dell’Osservatorio per la sicurezza del Mediterraneo della Lumsa.
Preoccupato anche il generale Luciano Portolano, comandante del Coi, per il quale lo scenario dei Balcani a medio termine sarà critico offrendo potenziali basi logistiche da usare per attacchi in Europa, per la presenza di “consolidate realtà estremiste” e come passaggio di combattenti di ritorno. Dal suo osservatorio di pianificazione e controllo delle missioni delle Forze armate, Portolano è preoccupato anche da tutto ciò che sta a Sud dell’Italia: le tensioni nel Sahel, nel Sub Sahara, nel Corno d’Africa, così come in Mali, Mauritania, Niger, Ciad costituiscono una minaccia aggravata dalla presenza di cellule Isis nel Sinai e dalla guerra in Libia.
IL 5G DEL JIHADISMO
I numeri spiegano molto, così Claudio Bertolotti, direttore dell’Osservatorio React, ha detto che dal 2014 al 3 ottobre 2019 (attacco nella prefettura di Parigi, 4 morti) ci sono stati 116 atti di violenza in Europa, ma solo 11 hanno avuto ampia attenzione mediatica nonostante attentati emulativi diffondano il terrore anche facendo pochi danni. Le forze dell’ordine italiane stanno dando prova da anni della loro efficacia, ma non hanno la palla di vetro. Essendo passati “dal monolite qaedista al Califfato fluido grazie a Internet”, il direttore del Servizio di contrasto al terrorismo esterno della Polizia, Claudio Galzerano, ha ammesso che dopo la morte di Abu Bakr al Baghdadi “nessuno può prevedere l’evoluzione” e potremmo trovarci un “5G del jihadismo”. Dunque, è fondamentale prevenire la radicalizzazione per “evitare di consegnare la prossima generazione al jihadismo”. Nel frattempo, secondo il colonnello Marco Rosi, comandante del reparto antiterrorismo del Ros, l’investigatore deve capire “chi è, che cosa fa e come si comporta” un potenziale terrorista che oggi usa Internet dopo che negli anni scorsi si usavano i giornali o al Jazeera per trasmettere messaggi. È possibile capire “chi è” anche monitorando le operazioni finanziarie: per il generale Cosimo Di Gesù, comandante del II Reparto della Guardia di finanza, stroncare i movimenti illeciti di denaro significa monitorare la raccolta fondi di certe ong religiose opache, le operazioni in criptovaluta o i versamenti via chat telefoniche.
UN APPROCCIO STRATEGICO
Dunque, se solo in Francia sono 25mila i soggetti potenzialmente pericolosi ma non arrestabili finché non commettono un reato e se le cause non sono solo religiose ma anche sociali, come ha ricordato Lorenzo Vidino, direttore del programma sull’estremismo della George Washington University, l’Italia deve cambiare approccio. Secondo Andrea Margelletti (presidente del Cesi) occorre “un ripensamento dottrinale sul contenimento della minaccia terroristica”, perché un conto è avere l’informazione e un altro capirla, e che l’Isis non avrebbe potuto controllare una certa area “senza un vasto consenso”. Nello stesso tempo, se la politica “è la chiave fondamentale per ridurre il rischio, non bisogna essere timidi nell’usare il bisturi”. Traduzione: se è utile alla sicurezza nazionale, “bisogna avere il coraggio di interventi unilaterali per i quali le Forze armate sono strumento fondamentale”.
Che fare? Attuare una strategia di politica estera e di difesa, ha detto l’ex presidente della commissione Difesa del Senato Nicola Latorre, anche perché “le politiche di deradicalizzazione sono parte di una politica di integrazione” e una legge sul tema va inserita in un “approccio strategico”. Stefano Dambruoso, oggi di nuovo magistrato, ha insistito sul combattere il terrorismo anche con la prevenzione e con il fondamentale controllo delle carceri. Ad Andrea Manciulli, presidente di Europa atlantica, non interessa se quella legge non approvata venga o meno modificata purché si faccia presto e in Parlamento se ne sta occupando Alberto Pagani (Pd). “L’Isis è sconfitto, ma il numero dei fronti del terrorismo è cresciuto”, dall’Asia all’Africa, dalle ex repubbliche sovietiche all’Afghanistan, ha detto Manciulli. Allora, mentre nell’ultima riunione dei ministri della Difesa Nato si è discusso anche di un nuovo ruolo dell’Alleanza contro il terrorismo, Guerini ha chiuso il cerchio: ripartire da quel testo per dotare l’Italia di uno strumento fondamentale come le indagini. Sperando che per quella parola un po’ lunga sia la volta buona.