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Finanziamento pubblico ai partiti, l’abolizione è una resa della politica

Non so quale sarà l’incipit della relazione che accompagnerà il disegno di legge del governo recante l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Suggerirei, però, un approccio estroso, non burocratico; la citazione di una battuta di Groucho Marx, ripresa dal Woody Allen dei tempi migliori: “Non mi iscriverei mai ad un club che ammettesse tra i suoi soci delle persone come me“.

L’APPELLO DI SPOSETTI
In sostanza, un governo, espressione della politica, decide di condannare a morte i partiti in omaggio all’antipolitica. In altre parole è tanto stupido da segare il ramo su cui è seduto. Si sarà capito da queste frasi iniziali che io condivido interamente le considerazioni del senatore Ugo Sposetti del Pd secondo il quale (si veda l’intervista al Corriere della Sera) questa iniziativa “è una risposta alla demagogia, al qualunquismo e al populismo“.

LA RESA DEI PARTITI
Mi differenzio solo per una parola: non si tratta di una ‘’risposta’’, ma di una ‘’resa’’, di un “atto di sottomissione”. “Gli italiani dovrebbero ragionare ed essere aiutati nel ragionamento – prosegue Sposetti – la democrazia è un valore o un peso? Se è un valore la si difende… Non c’è Paese in Europa che non abbia il finanziamento pubblico ai partiti e che non abbia un sostegno alla vita democratica“. La requisitoria di Sposetti va oltre nella denuncia di chi sono i soggetti che vengono colpiti da questa operazione demagogica: “A restare senza lavoro è gente che guadagna tra 1000 e 1500 euro al mese“. E ha ragione, soprattutto, quando ricorda che una legge dello Stato ha dimezzato i contributi e che, su quella base, i partiti avevano legittimamente presi impegni con fornitori e collaboratori.

L’ESEMPIO DEL PCI
Ugo Sposetti è un ex comunista, ravveduto ma non pentito. Ha organizzato una mostra itinerante sulla storia del Pci: un’opera di grande contenuto storico anche per il Paese. Io l’ho visitata quando era esposta a Bologna. Sposetti stesso mi guidò a vedere le cose più importanti perché per avere una visione completa sarebbero occorse intere giornate. Tra le eccellenze mi indicò un appunto scritto di suo pugno da Palmiro Togliatti dove si prendeva nota, per riferire alla mitica Direzione del Partito al ritorno in Italia, di una conversazione, avvenuta a Mosca nel 1949, tra il leader comunista e Stalin. Tra gli aspetti di maggior interesse vi erano chiare indicazioni della solidarietà economica che il Pcus praticava a favore del Pci. A valutare la cosa al di fuori della storia e della politica, si arriverebbe a considerazioni gravissime, essendo il nostro un Paese appartenente – allora come adesso – ad un’alleanza avversaria di quella del Patto di Varsavia.

LE RAGIONI DELLA POLITICA
Ma la politica ha delle ragioni speciali che la ragione non conosce. Le ha sempre avute da che mondo e mondo. E sono soltanto i visionari e gli anacoreti che, di tanto in tanto, sono invasati dall’assillo di redimerla. Un ex ministro della Prima Repubblica, tuttora più lucido di tanti capigruppo di questo ridicolo Parlamento, soleva dire che la politica è “sangue e merda“. Molto più prosaicamente un grande scienziato, Friedrich Meinecke, collocava la politica nell’incerto equilibrio tra kratos ed ethos, giustificando l’uso del potere come un’arma rivolta ad affermare un principio etico. Ovviamente stiamo parlando d’altro: non vale la pena di scomodare illustri personaggi per giustificare le pastette di tanti che siedono in Parlamento in seguito ad una distrazione degli elettori.

LO SPECCHIO DEL PAESE
Giorgio Amendola, un esponente storico del Pci che Giorgio Napolitano conosceva benissimo, era solito ricordare che la classe politica si divide in tre parti: una piccola minoranza composta dalle persone migliori del Paese; una parte percentualmente uguale in cui si trovano le peggiori; la grande maggioranza è fatta ad immagine e somiglianza del Paese. La classe politica insomma non è né migliore né peggiore di quella società civile che, periodicamente, sale in cattedra e pretende di comandare.

LO “SCANDALO” DEL FINANZIAMENTO PRIVATO
Che altro dire ? Sono abbastanza anziano da ricordare quando venne istituito il finanziamento pubblico. All’inizio degli anni ’70, si scoprì che i partiti prendevano contributi dai petrolieri e da altre società private: la cosa determinò uno scandalo a cui i gruppi dirigenti dei partiti (ricordo, da socialista, le parole di Francesco De Martino, allora segretario del Psi ed insigne studioso di storia del diritto romano) reagirono dichiarando apertamente che la politica aveva dei costi e che era necessario affrontare questo problema con un intervento di natura pubblica. Così fu. Almeno fino al referendum radicale che abolì il finanziamento a carico dello Stato, a cui i partiti risposero in modo surrettizio istituendo i rimborsi elettorali (e, purtroppo, con gli abusi multipartisan a cui diedero luogo).

IL VALORE DELLA COSTITUZIONE
Certo, ai partiti si possono rimproverare tanti comportamenti furbeschi, non trasparenti ed equivoci. Devono riconoscere che una certa dose di ostilità se la sono cercata e meritata. Ma non si può accettare un andazzo per cui tutte le istituzioni democratiche al pari degli altri protagonisti degli ordinamenti politici e civili siano ritenute un costo da ridimensionare in ragione della loro inutilità. L’articolo 49 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) individua nei partiti il tramite con cui i cittadini partecipano alla vita pubblica e non prevede affatto quella legislazione attuativa che i portatori di enormi code di paglia vorrebbero fare oggi. Anzi, la Carta attribuisce alle formazioni partitiche il profilo di associazioni libere, anche nei confronti delle possibili ingerenze dello Stato.

COME IN IRAN?
Ed è proprio il finanziamento pubblico (si possono sempre individuare altre forme e modalità ritenute più idonee) a tutelare questa libertà. Se ne vuole fare a meno? I partiti di domani diventeranno dei comitati elettorali a ridosso dei boss locali (come avveniva nell’Italia liberale, prima che sorgessero i primi grandi partiti di massa)? Si faranno le assemblee tramite web come regola generale e si chiuderanno le sedi dei circoli e delle sezioni? E sarà questo il “metodo democratico” di cui parla l’Articolo 49? I leader non emergeranno più dalla lotta politica interna, ma dai talk show: quelli di sinistra da “Ballarò”, quelli di centro destra da “Porta a Porta”. E ovviamente si affiderà alle Procure – come se i pm fossero ayatollah – il diritto-dovere di verificare le liste elettorali ed espungerne gli ‘’impresentabili’’. Non funziona così in Iran?

Basta soldi ai partiti? Beppe Grillo contro il finanziamento pubblico dei partiti (fonte video: La7)

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