Quanto è importante la ricerca per la salute dei cittadini e quanto lo è per la sanità nazionale? Quanto costano gli investimenti nella farmaceutica e quanto, invece, hanno ricadute positive sull’economia del sistema-Paese? E come trovare un bilanciamento fra il ruolo del medico, quello delle Regioni e, non da ultimo, quello della politica, nelle decisioni da assumere in campo sanitario? Ne abbiamo parlato con Filippo de Braud, professore di oncologia medica presso l’Università di Milano e direttore del dipartimento di oncologia medica ed ematologia della Fondazione IRCCS Istituto nazionale tumori Milano, intervistato in ambito del progetto “In scienza e coscienza”, nato dalla collaborazione fra Fondazione Roche e Formiche, con l’obiettivo di interrogarsi – e interrogarci – sul dibattito in merito alla libertà prescrittiva del medico e ai vincoli economici imposti dalla limitatezza delle risorse e dalla necessità di Regioni e aziende ospedaliere di gestire il contenimento della spesa sanitaria: come bilanciare le migliori cure con la sostenibilità finanziaria?
In scienza e coscienza, che è il nome che abbiamo deciso di dare a questo progetto, rappresenta uno dei princìpi fondanti della professione medica. Lei crede che oggi questo valore sia pienamente rispettato, o vi sono delle minacce alla piena soddisfazione dello stesso? Se sì, quali?
Il principio di scienza e coscienza è un concetto cui ho fatto e faccio spesso riferimento nell’alveo della mia professione. Ritengo infatti che siano entrambi elementi imprescindibili ma che, al contempo, debbano necessariamente coesistere. Senza dubbio vi sono degli elementi che rischiano di minare questo principio, che vigono soprattutto rispetto ai limiti e alle debolezze che ognuno di noi ha, fra cui il rischio di innamorarsi delle proprie idee e del proprio operato, perdendo una certa dose di oggettività che è invece fondamentale per uno scienziato. Senza uno sguardo oggettivo, infatti, si rischia di sopravvalutare o sottovalutare o, ancora, di interpretare in maniera erronea determinati segnali o determinate realtà.
Da un punto di vista pratico, dunque…
Nella pratica, una delle critiche che viene mossa più frequentemente all’industria farmaceutica è quella di condizionare le decisioni dei medici in materia di strategia terapeutica, farmacologica o diagnostica che sia. Ritengo, però, che la ricerca debba molto all’industria farmaceutica poiché è quella che, seppure per ragioni di interesse economico, ha maggiormente investito nella ricerca e nell’innovazione. A quel punto, quando vi sono dati controversi, è quasi ragionevole che chi ha compiuto grossi sforzi per cercare determinati risultati li interpreti in maniera soggettiva, ma è per questo che esiste il ricercatore e, attorno ad esso, il mondo accademico, il cui compito è proprio quello di effettuare un’attività di razionalizzazione delle zone grigie. E, quando il grigio permane, approfondire i livelli di ricerca così da poter cercare di dare delle risposte. Quindi, un buon ricercatore deve possedere entrambi i valori. La scienza, e quindi una cultura scientifica, e la coscienza, e quindi saper accettare i risultati, anche quando sono in controtendenza rispetto a quanto ci si aspettava o si sperava.
La ricerca rappresenta il primo strumento per il miglioramento della salute dei cittadini. Ma al di là di questo, come impatta da un punto di vista economico sul Servizio sanitario nazionale? Si può dire che gli investimenti destinati alla ricerca hanno delle ricadute positive sulla spesa, nel lungo termine?
La ricerca clinica rappresenta senza dubbio un’opportunità, soprattutto nel campo dell’oncologia. Il concetto di ricerca, però, va approfondito. Ne esistono diverse tipologie, per cui se facciamo riferimento a quella branca che confronta gli standard terapeutici con le procedure innovative, dobbiamo sempre tenere conto che non si può mai sapere a priori se effettivamente la terapia innovativa sarà migliore di quella standard, e questo va comunicato con grande attenzione e trasparenza ai pazienti. Penso altresì, però, che per un paziente che altrimenti non avrebbe alternative terapeutiche, partecipare a uno studio clinico possa essere percepito come una grande opportunità e con i nuovi farmaci lo può essere.
E per quanto riguarda i costi, invece?
Intanto, partiamo dal tener conto del fatto che la ricerca profit è generalmente sostenuta dall’industria farmaceutica, per cui un determinato trattamento sperimentale, nella maggioranza dei casi, è parzialmente coperto dall’industria farmaceutica stessa, andando quindi a generare per lo Stato un costo inferiore rispetto a quello che imporrebbe lo standard terapeutico, che invece sarebbe totalmente a capo del Ssn. Spetta sempre al medico, però, in scienza e coscienza, decidere chi far rientrare in una determinata sperimentazione, tenendo conto di tutte le caratteristiche specifiche del paziente, dalla storia clinica alle esigenze personali, dalla disponibilità, eventualmente, a muoversi sul territorio nazionale così come a quella del caregiver di seguirlo secondo le necessità. Vi sono, infine, anche degli aspetti organizzativi, cruciali soprattutto nel nostro Paese.
Ci spieghi…
Personalmente ho messo in piedi un sistema per cui con i fondi della ricerca pago il 60% dei medici, garantendo un notevole risparmio alla struttura sanitaria pubblica, ma anche elevate prestazioni sia dal punto di vista della ricerca che dell’assistenza, due elementi che non possono prescindere l’uno dall’altro. Un modello simile potrebbe o dovrebbe essere implementato in tutte le strutture, poiché ne gioverebbe l’intero sistema. Servirebbe, insomma, una normativa che aiuti chi fa ricerca a poter reinvestire le entrate in processi virtuosi per l’ottimizzazione dell’assistenza e della ricerca stessa.
Bilanciare benessere del paziente e sostenibilità non è semplice. Quale può essere il punto di equilibrio fra questi due aspetti, e a chi spetta individuarlo?
Innanzitutto, ricordiamo che siamo in un Paese straordinario, dove chiunque si ammala ha il diritto di essere curato, cosa che non accade in molti altri luoghi, dall’Africa ai Paesi orientali, fino agli evolutissimi Stati Uniti, dove chi ha un disagio economico non gode di un diritto alla cura. Per garantire, dunque, un bilanciamento efficiente, lo Stato dovrebbe governare gli sprechi, ottimizzare percorsi e procedure e battersi sul costo dei farmaci, sebbene questo rappresenti una questione minoritaria, poiché se impiegati bene i farmaci generano sempre un grosso ritorno.
Eppure il loro costo è in continuo aumento…
Non più di tanti altri beni. Tuttavia, se facciamo un paragone con altri prodotti, ci accorgiamo che il prezzo dei farmaci ha subìto un incremento sproporzionato la cui causa è oggetto di dibattito. Ad ogni modo, servirebbe una riflessione che non si muova su un piano nazionale, bensì internazionale: il mercato è globale e l’approvazione dei farmaci avviene negli Stati Uniti, dove il problema dei costi, per ovvi motivi, non è sentito. Probabilmente sarebbe andata diversamente se fosse stata approvata la riforma Obama; in tal caso l’Europa sarebbe diventata il benchmark di riferimento. Ma del resto, in tutti i paesi e quindi anche in Europa l’agenzia che approva la commercializzazione non si occupa né di politica dei prezzi né di regole di ingaggio, per cui se vi fossero regole e meccanismi di protezione internazionali, sarebbe tutto più semplice. Ma ricordiamo che l’Italia, sebbene a volte ottenga l’autorizzazione più tardi di altri Paesi, ad oggi vanta un payer unico che garantisce, in via generale, la disponibilità dei farmaci per chiunque ne abbia bisogno. Per cui sì, la sostenibilità rappresenta un problema, ma che non riguarda esclusivamente il costo dei farmaci quanto piuttosto la razionalizzazione delle risorse e la standardizzazione delle procedure diagnostiche e terapeutiche su parametri di qualità e efficienza.
Parliamo del passo precedente alla cura: la diagnosi. Qualora un medico si trovasse dinanzi a strumenti di diagnosi avanzati e sofisticati tali da identificare patologie per le quali, però, le terapie non siano disponibili, quale comportamento dovrebbe avere?
Bisogna innanzitutto cercare di capire quanto in oncologia tornino utili le indagini molecolari. Queste ci permettono di stabilire se vi sono dei geni che aiutano il processo di crescita della malattia, o delle signature, ovvero sequenze di attività dei geni che, pur non alterati, implicano il funzionamento (o il non funzionamento) di un determinato trattamento, magari immunoterapico. È indubbio che apprendere questo tipo di informazioni diagnostiche anatomopatologiche molto sofisticate torni utile. Tra l’altro, i test molecolari hanno costi molto ridotti rispetto al passato e, con i rimborsi previsti, possiamo effettuare molte più indagini. Queste, però, pur essendo molto utili, hanno un rovescio della medaglia: infatti, inserire in una diagnosi una serie di informazioni che non hanno una conseguenza terapeutica standard può creare aspettative e confusione per i Pazienti. Fare analisi approfondite, però, e quindi su geni per cui abbiamo già determinati farmaci, i cosiddetti druggable, ci consente di trovare alterazioni molecolari che possono essere molto più importanti, magari proprio perché superano determinati druggable o perché, in secondo luogo, ne spiegano la transitorietà. Questo approccio risulta molto interessante perché ci trasla verso un criterio agnostico, che anziché individuare una patologia e, conseguentemente, una terapia per la patologia, cerca alterazioni geniche che vengano curate indipendentemente dalla patologia specifica.
Mi può fare un esempio?
Due esempi: geni come Trk e Ret che hanno farmaci specifici attivi indipendentemente dalle patologie. Il gene Braf, che può essere mutato in diversi tipi di tumore. Prendiamo, ad esempio, il melanoma e il tumore al colon. In entrambi i casi servono farmaci che blocchino il gene Braf mutato e, a valle, il gene Mek. Ma se per il melanoma basta intervenire su questi due geni, nel caso del tumore del colon bisogna bloccare anche il recettore del fattore di crescita dell’epidermide (Egfr). E questo accade in molti altri casi. Per cui, una conoscenza approfondita ci può portare a sviluppare combinazioni proficue capaci di intervenire in maniera efficiente non solo su uno specifico gene ma su una o più pathway.
Come incentivare questo approccio?
In questo caso si potrebbe arrivare a stabilire delle regole standard di sistema per cui, ad esempio, le aziende mettono a disposizione i farmaci per i primi trattamenti e poi, nel caso in cui questi funzionino, lo Stato se ne fa carico per le fasi successive.
Un’ultima domanda. Cosa suggerisce alla politica per il futuro della sanità e per la salute dei cittadini?
Di proteggere il sistema eccellente che abbiamo, premiando chi lavora bene, garantendo uno standard minimo di qualità uniforme, effettuando controlli puntuali e considerando che la sanità non è fatta solo da medici, ma anche da infrastrutture. Il sistema funziona se il medico fa il suo lavoro, ma il suo lavoro deve essere coadiuvato da tutta una serie di figure professionali senza le quali il sistema perde efficienza e efficacia. Faccio riferimento, ad esempio, nel campo della ricerca, a figure come l’infermiere di ricerca, il data manager o la segretaria scientifica e il “case manager” per coordinare i percorsi diagnostici terapeutici nell’assistenza. Per un sistema che garantisce assistenza a tutti, la politica dovrebbe investire sul sistema sanitario riducendo gli sprechi. Fare, insomma, una manovra politica che sia poco politica. Perché la politica vuole essere accattivante, mentre per garantire un buono stato di salute del Servizio sanitario nazionale deve essere discriminante. E ad oggi non lo è.
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