Il taglio dei parlamentari diventò come quei gialli di Agatha Christie: c’è il morto e si cerca un colpevole, ma alla fine si scopre che sono colpevoli tutti. Perché, come nell’Orient Express, tutti hanno infilato il loro coltello nel corpo del Parlamento: il giovane gagliardo e hater, il veterano riluttante, la signora âgée elegante e bisbetica, la bella con gli occhi innocenti e spauriti.
L’opera finale, dunque, è il prodotto di un collettivo, probabilmente preterintenzionale – la bandiera sventolante dei Cinque Stelle che il Pd aveva ripetutamente ripudiato e poi abbracciato insieme a tutti gli altri – ma che ora guarda gli italiani con l’occhietto complice di chi ha risposto all’istinto arcaico dell’antiparlamentarismo coltivato del cervello rettiliano (quello dei basic instinct), che attinge a mani piene dalla letteratura delle “aule sorde e grigie “. E che, in un tempo in cui popolo e rappresentanza parlamentare non si incontrano più anche grazie agli stranianti sistemi elettorali in vigore, opera nell’onda della presunzione: si presume, infatti, che il popolo voglia così.
Personalmente sono convinto che il popolo andrebbe ascoltato e che la sua voce potrebbe anche urlare qualche sorpresa, come avvenne nel 2006 e nel 2016, quando vennero sottoposte al vaglio degli italiani riforme imponenti dell’ordinamento costituzionale, prima il modello presidenzialistico berlusconiano e dieci anni dopo il superamento del bicameralismo simmetrico firmato da Renzi.
In entrambi i casi il popolo disse no: la manomissione della Costituzione fatta dai ri-costituenti non convinceva. Dunque, per un intervento manomissivo come questo, che non solo ferisce profondamente il concetto di rappresentanza, ma incide nella dinamica complessiva dell’organizzazione dello Stato democratico, bisognerebbe andare a spiegare agli italiani, con argomenti seri e non con slogan, qual è davvero la posta in gioco.
Peraltro il referendum dovrebbe andar bene anche a chi ha promosso o votato questo taglio: la conferma derivante da un plebiscito conferirebbe credibilità e forza politica maggiore al provvedimento. Certo, potrebbe non predisporre lunga vita alla legislatura, posto che il giorno dopo l’entrata in vigore della riforma il parlamento risulterebbe delegittimato: come potrebbe, per esempio, un collegio elettorale dei vecchi 945 grandi elettori procedere all’elezione del Capo dello Stato, contaminando con la sua “vecchiezza” la figura del nuovo Presidente chiamato a svolgere le sue funzioni per il nuovo settennato?
Com’è noto per fare il referendum occorrerebbero cinquecentomila firme di cittadini o la richiesta di cinque Regioni, o la sottoscrizione di un quinto di deputati o di senatori. Tutto entro i primi giorni di gennaio 2020. La cosa meno ardua (e più logica) sarebbe la raccolta delle firme dei parlamentari. Ma lo stato dell’arte tutt’oggi appare circonfuso da mistero (come si addice, appunto, a un giallo di Agatha Christie).
Pare che qualcuno stia raccogliendo, a quanto si capisce in modo alquanto discreto, le firme alla Camera e al Senato, con scarso risultato alla Camera (si dice 17 firme) e con migliore esito al Senato (pare una quarantina su 65 necessarie). Vorremmo dire: diamoci una mossa. È questo che chiede anche un appello che sottoscrivo convintamente, “Vogliamo il referendum costituzionale “, lanciato da Domenico Gallo, Giancarlo Tartaglia e altri 564 cittadini per chiedere ai Parlamentari di sottoscrivere la richiesta del referendum.
È il minimo sindacale che il Parlamento può fare. Lo stesso Parlamento che ha già approvato in prima lettura alla Camera un’altra importante legge costituzionale, quella che istituisce una forma di referendum propositivo, un’iniziativa legislativa concorrente con quella parlamentare. Sarebbe un po’ bizzarro se il Parlamento da un lato si impegnasse a consegnare ai cittadini la facoltà di concorrere all’attività legislativa con ruolo preminente rispetto ai legislatori e dall’altro si volesse sottrarre al vaglio del popolo sovrano su una questione centrale nell’organizzazione democratica.