La tendenza è quella: farsi un partito proprio. Dal “partito personale” siamo passati alla “persona-partito” o, meglio, “partitino”. Chissà, forse gli storici del futuro diranno che oggi in Italia è in atto una sorta di tribalizzazione della politica; oppure, al contrario, che mai come oggi la democrazia celebra i suoi fasti tanto che farsi un partito è più o meno come farsi una villa a Cortina.
Qualche voto alla fine lo si raccatterà comunque, e con esso anche qualche seggio per giocare un ruolo in partita. Il vecchio Partito novecentesco, di impianto e organizzazione leninista anche quando era “democratico” o “liberale”, aveva una tradizione e una solidità acquisite sul campo, un insieme di valori di riferimento sedimentatisi nel tempo. I programmi, scritti o non scritti, rispettati o (il più delle volte) non rispettati, ne discendevano di conseguenza. Ora invece le idee, e anche i nomi, bisogna inventarseli sul momento, sperando che essi attecchiscano nel pubblico come potrebbe il marchio di una saponetta.
Carlo Calenda, dopo diverse esperienze ministeriali nei governi di centrosinistra, eterno insoddisfatto della politica italiana, gettonato e richiesto nei talk show televisivi, tranquillizzante e irruente al tempo stesso, si è ora anche lui deciso a passare all’azione, è proprio il caso di dire. Il suo movimento si chiama appunto “Azione”, e, come i libri che si rispettano, ha pure un sottotitolo: “Per una democrazia liberal-progressista”. Il manifesto di fondazione esplica poi le direttrici lungo cui Calenda si vuole muovere e le policies che intende promuovere. La prima impressione è che – fatti salvi il coraggio, la coerenza e l’onestà intellettuale dell’ex ministro – ci si trovi di fronte non ad una novità ma al revival di un’ideologia novecentesca ben precisa, che, fra l’altro, ha contribuito a promuovere in Italia persino una sorta di “egemonia culturale”: quella del Patito d’Azione, appunto. Incanalatasi poi, presto scomparso il partito, lungo i filoni appunto della democrazia liberale (o laica) e del progressismo.
Abbiamo ancora bisogno di “liberali di sinistra”, liberalsocialisti e liberaldemocratici? L’Italia ha ancora bisogno di una cultura che ha amato ed ama presentarsi retoricamente come la cultura minoritaria dell’ “altra Italia”, ma che in definitiva ha contribuito a dare il tono a una parte non irrilevante del ceto dirigente nazionale e soprattutto di quello “riflessivo” o intellettuale? E ne ha bisogno il liberalismo? E i mali del Paese si curano continuando sulla stessa strada, quella che fa da sfondo per capirci all’ideologia del quotidiano La Repubblica, oppure cercando di immettere nel sistema dosi di culture politiche che sono state sempre da esso assenti come quella liberale senza aggettivazioni o quella conservatrice?
Dall’impostazione ideale proposta da Calenda, discende come ovvia conseguenza anche la proposta di un “Fronte Repubblicano e Democratico” che sia “capace di ricacciare populisti e sovranisti ai margini del sistema politico”. Nulla di nuovo sotto il sole, neanche da questo punto di vista! Ora, a parte il fatto che il “frontismo” non ha mai portato fortuna in politica, il punto da considerare è che pensare di “ricacciare ai margini” i movimenti emersi in questi ultimi anni quasi fossero un “cancro da estirpare” o un semplice incidente di percorso significa non aver compreso, da una parte, la radicalità delle trasformazioni in atto, e il fatto che la crisi sia non contingente ma di sistema, dall’altra, che quei movimenti esprimono un malessere e dei bisogni concreti che non hanno trovato soddisfazione nel ceto politico.
Di fronte ad essi non è perciò efficace e nemmeno giusto porsi, prenderli cioè di petto. Occorre piuttosto, a mio avviso, comprenderli e incanalarne gli impulsi vitali verso esiti costruttivi e non disgreganti. Anche assumendo dosi omeopatiche di alcuni loro elementi. Nobile proposito quello di “rimettersi in azione”, ma bene sarebbe farlo provando a cambiare direzione.