In un’Italia flagellata dal maltempo, è tornato alla ribalta un problema che interessa tutti noi: il cambiamento climatico. Oltre però a generare enormi disagi nel nostro Paese, se non vittime in alcuni casi, e a mettere in ginocchio intere città – Venezia, Licata e Matera ne sono esempio concreto, come lo sono negli ultimi giorni le regioni Liguria e Piemonte colpite da calamità naturali – la riflessione, se si va al di là dei confini nazionali, si fa globale.
È in questo contesto di attualità e di emergenza che è uscito da poco in libreria il volume “Profughi del clima. Chi sono, dove andranno, da dove vengono”, firmato da Francesca Santolini giornalista ed esperta di temi ambientali, per Rubbettino editore. Con la prefazione di Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio e la postfazione di Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi.
L’argomento è davvero poco trattato dai media, “completamente assente dal dibattito pubblico”, ci tiene a precisare Santolini, che spiega in una conversazione con Formiche.net quanto la questione dei migranti climatici ci interessi così da vicino. Sia per motivi di accoglienza, sia per motivi ambientali.
Il nostro Paese è uno Stato che oltre ad accogliere i migranti, si ritrova a subire le calamità che i cambiamenti climatici portano con sé. Oggi non si progetta più, pur avendo risorse per il dissesto idrogeologico. È vero?
Il vero problema è una mancanza di know-how e competenze specifiche a livello locale per pianificare nuovi progetti. L’Italia ha una cultura politica di breve termine e si fa fatica ad avere una visione a lunga progettazione. Tutto ciò è totalmente incompatibile con le politiche ambientali e climatiche da attuare, perché gli scenari che vengono definiti dagli scienziati sono tutti a lungo termine. Manca quindi un approccio scientifico a tali questioni. La società ormai è complessa e non può permettersi un approccio semplicistico ai problemi.
Che cosa si dovrebbe fare oggi?
Ogni decisione presa dovrebbe integrare gli scenari definiti dagli scienziati. Perché l’Italia ha centinaia di migliaia di persone che vivono in zone ad alto rischio. La gestione del fenomeno climatico ha bisogno di adottare strategie complementari di mitigazione (ridurre emissioni) e di adattamento (dei territori) che abbiano un respiro a lungo periodo. Nel bacino del Mediterraneo siamo il Paese più vulnerabile. Non solo per le temperature che negli ultimi due secoli da noi sono aumentate, ma anche per i fenomeni migratori. Quelli che infatti arrivano nel nostro Paese sono migranti climatici. Ma quando si parla di emergenza migranti, questo aspetto non viene collegato.
Lei nel suo libro infatti spiega proprio il fenomeno dei migranti ambientali. Che differenze ci sono dagli altri flussi migratori?
Le migrazioni dovute ai cambiamenti climatici sono migrazioni forzate. Nel senso che, mentre per ogni tipo di allontanamento dal proprio territorio, c’è la ricerca di una vita migliore, in questo caso specifico non c’è scelta. Le persone sono costrette ad abbandonare la propria terra divenuta ostile e inabitabile. Manca proprio l’accesso alle risorse vitali. E questa è una grande differenza tra i vari tipi di migrazioni.
Eppure questo tipo di migranti è numeroso, anche se se ne parla poco…
Le migrazioni dovute al cambiamento climatico esistono ormai da anni, ma vengono sovrapposte nel dibattito pubblico. Questo rende complicato identificarle. Molti rapporti e dossier si concentrano sui movimenti di migrazioni interne dei Paesi, ma nei prossimi anni saranno più transfrontaliere.
L’ultimo rapporto che si riferisce a questo tipo di migrazioni è il rapporto della Banca Mondiale che sostiene che entro il 2050 circa 143 milioni di persone saranno costrette a spostarsi all’interno dei loro Paesi. Parliamo di Africa Sudsahariana, di Asia meridionale, fino all’America Latina. Migrazioni interne, quindi.
A proposito di identificarli, lei spiega la difficoltà di inquadrare attraverso il diritto internazionale lo status di queste persone. Profughi, rifugiati, sfollati, migranti ambientali. Nessuno lo status finora trovato.
A livello giuridico il nodo è tutto ancora da sciogliere. I migranti ambientali sono al momento dei fantasmi. Non esiste infatti uno status internazionale. Ad oggi sono assimilati a quelli economici. Perché un migrante ambientale abbia riconosciuto il diritto d’asilo, deve esserci un conflitto nel suo Paese di provenienza. Ma i cambiamenti climatici provocano anche mancanza di risorse, e da qui si arriva a possibili conflitti per l’accaparramento delle risorse stesse. È tutto molto correlato. Nel 2016 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite di New York ha riconosciuto formalmente gli impatti dei cambiamenti climatici come fattori delle migrazioni forzate. Quindi il dibattito scientifico è aperto.
Un dibattito che deve far capire quanto tutto sia correlato…
È miope non vedere che il cambiamento climatico creerà dei fenomeni sociali ed economici molto importanti. E non parliamo di un futuro remoto quello che si palesa. L’obiettivo del libro è far comprendere proprio che il fenomeno del cambiamento climatico è sistemico e che ha un impatto ecologico, umanitario, sociale economico e di sicurezza.
Ma da dove arrivano per lo più i migranti climatici? E perché?
Già oggi 9 migranti su 10 arrivano dalla fascia territoriale del Sahel in Italia. Secondo uno studio recente del Cnr l’80% di questi flussi migratori hanno come traino il fattore climatico, ovvero sono migranti climatici. Chiaramente c’è inconsapevolezza, ovvero si parla di migranti inconsapevoli che non sanno di essere migranti climatici perché il loro racconto narra di una fuga dalla loro terra, dove non hanno più nulla da mangiare.
Nel caso specifico del Sahel e del Nord Africa uno degli effetti del clima è la siccità che non è un fenomeno come può essere un disastro, un terremoto, un’inondazione. La questione climatica è un fenomeno che si vede nel tempo. Vivendo poi di agricoltura, in questi Paesi le persone si ritrovano a non avere più nulla. Mentre chi fugge da un conflitto, quando tale situazione si viene a risolvere, teoricamente può tornare al suo Paese di origine, il migrante climatico non può tornare nella sua terra. Il fenomeno è irreversibile. Questo creerà complicazioni anche in tema di urbanizzazione. Basti pensare agli spostamenti di massa che si prevedono nei prossimi anni nelle metropoli.
Il 70% della popolazione mondiale entro il 2050 vivrà in aree urbane.
Quali sono i Paesi che più risentono ad oggi delle conseguenze dell’impatto climatico?
I primi profughi ambientali riconosciuti dall’Unesco sono quelli della Papua Nuova Guinea. Ogni impatto del clima ha varie conseguenze dall’innalzamento del livello del mare, all’aumento dei fenomeni estremi. Per esempio in Asia, in Bangladesh, negli ultimi anni c’è stato un aumento delle inondazioni. Non a caso la comunità del Bangladesh è numerosa in Italia.
Riguardo la sensibilizzazione ai temi ambientali, oltre i Fridays For Future che sono venuti alla ribalta da qualche tempo, lei racconta che nel mondo esistono anche altri attivisti, i Pacific Climate warriors.
Sì è un gruppo di attivisti climatici pacifici, cittadini delle isole del Pacifico molto colpite dai cambiamenti climatici. Si definiscono guerrieri non violenti e promuovono la conoscenza dei cambiamenti climatici. Le loro isole stanno scomparendo sotto l’acqua. E vogliono proteggere la loro terra e la loro cultura. Manifestando e denunciando la loro situazione. Sono i primi migranti climatici al mondo.
Inondazioni, ma anche siccità. Lei nel libro si sofferma sulla questione acqua come petrolio del futuro…
Entro la fine del secolo il 7% del pianeta sarà sotto l’acqua. Da una parte innalzamento del livello del mare, dall’altra il fenomeno del riscaldamento globale che porta con sé la siccità. In alcune aeree del pianeta l’acqua sarà una risorsa che varrà sempre di più. La sua assenza può provocare conflitti. Troppe volte si omette di dire che i conflitti vengono innescati anche dall’assenza delle risorse. L’acqua è una risorsa vitale e l’accaparramento dei territori renderà gli episodi conflittuali sempre più frequenti.