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London Bridge, se la condanna non recupera il terrorista. Parla Margelletti (Cesi)

“Occorre nell’ordinamento giudiziario una norma che preveda un percorso di deradicalizzazione sotto custodia in isolamento all’interno di strutture dedicate per i terroristi che hanno scontato una pena o chi torna dai teatri di guerra, come le mogli dei foreign fighter. La semplice detenzione non serve”. Andrea Margelletti, presidente del Cesi (Centro studi internazionali) ed esperto analista di terrorismo, non vede altre ricette all’indomani dell’attentato del London Bridge compiuto da chi aveva scontato sei anni per gli stessi fatti.

È possibile che la vicinanza del Natale o che quel giorno fosse il Black friday abbia determinato l’azione o è stata la scelta di un giorno qualunque?

Facciamo una premessa: questa domanda implica un’organizzazione, cioè la costruzione del pensiero sul fatto che si sta avvicinando Natale o su altro, invece funziona così solo quando ci sono le cellule.

Non può fare un ragionamento simile anche il singolo, decidendo cioè di agire in quel modo in quel giorno pur non facendo parte di un’organizzazione?

Sono perplesso su questa ipotesi, perché tra Londra, un’altra capitale o il centro di Roma (in questo non c’è differenza) la decisione è estemporanea, con uno strumento facilmente reperibile come un coltello.

Tutti abbiamo notato che di nuovo è stato scelto il London Bridge per compiere un attentato: c’è una spiegazione?

Quel ponte è ormai diventato un simbolo dopo gli attentati del 2017. Il ragionamento di Usman Khan probabilmente è stato semplice: agisco nello stesso luogo dove altri prima di me hanno colpito. Per esempio avrebbe avuto più obiettivi a disposizione e più facilità di fuga nei magazzini Harrod’s.

Invece sul London Bridge si è trovato di fronte alla reazione di normali cittadini che ha facilitato l’intervento della Polizia.

Questo conferma che la scelta del ponte non è stata casuale. Per tornare all’esempio di Harrod’s, lì sarebbe stato più facile fuggire tra un piano e l’altro del magazzino uccidendo più persone prima di essere bloccato.

La reazione dei cittadini è stata sorprendente: istintiva senza pensare alle conseguenze.

Semplicemente, sono inglesi. Ricordiamo che dopo l’attentato di Londra del 2005 i cittadini andarono tranquillamente al lavoro usando la metro. E’ una mentalità che altre nazioni non hanno.

Resta il problema più serio: l’attentatore aveva scontato sei anni di prigione per fatti di terrorismo organizzati da al Qaeda e aveva il braccialetto elettronico. È la dimostrazione che affrontare il fenomeno con norme tradizionali non è possibile. Che cosa si potrebbe fare?

L’unica possibilità è prevedere un percorso di deradicalizzazione sotto custodia in isolamento all’interno di strutture dedicate, un percorso che deve durare tutto il tempo necessario a eliminare il rischio. Naturalmente questo comporterebbe l’introduzione di nuove norme, sempre nel rispetto delle regole democratiche, ma è evidente che una normale detenzione non risolve il problema ideologico.

Questo discorso riguarda anche l’irrisolto problema dei foreign fighter e delle loro mogli.

Proprio perché qualche volta è giuridicamente difficile dimostrare il tipo di reati commessi, se una donna non può essere condannata o se le si possono infliggere pene lievi, ciò non significa che non possa essere un pericolo per la diffusione di idee estremiste. Anche in questi casi si dovrebbe prevedere un percorso di deradicalizzazione sotto custodia.

Poche ore dopo l’attacco di Londra, a L’Aja una persona per ora non identificata ha ferito a coltellate tre persone ed è fuggita.

Penso possa trattarsi di emulazione: appena si è diffusa la notizia di quanto era accaduto a Londra, un altro estremista ha deciso di agire. Anche qui senza nessuna organizzazione alle spalle.



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