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Il presepe, la tradizione e i poveri. La lettera apostolica di papa Francesco

Uno dei più apprezzati studiosi del fatto religioso contemporaneo, Olivier Roy, ha pubblicato recentemente uno studio importantissimo, “L’Europa è ancora cristiana?”. La sua tesi è che lo sia poco; dopo la secolarizzazione il cristianesimo ha contato soprattutto come eredità di rilevanza civile, avendo contribuito a costruire il sistema dei valori della società liberale. Oggi la politica populista lo usa come strumento di esclusione dello straniero. Pensando a una Lettera Apostolica sul valore del presepe, Papa Francesco non ha pensato solo all’Europa, ma certo un pensiero particolare per la terra dove è nato il presepe lo deve aver avuto. È in Europa che il presepe è “un’antica tradizione” da preservare, come tutte le tradizioni. Ma di che tradizione si tratta? “Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti”.

Dopo averci ricordato che dobbiamo a Francesco questa tradizione “vivente”, il papa ne spiega il significato: “Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali. In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi”.

“Sentire”, “toccare”, sono parole fondamentali per il magistero post-ideologico di Francesco. E subito dopo arriva una sottolineatura molto importante per l’inserimento di una tradizione, qual è il presepe, nella nostra realtà e nella nostra vita, come si può presumere debba essere anche per altre tradizioni. Il papa infatti ricorda l’uso molto diffuso di arricchire il presepe, trasformandolo secondo le trasformazioni dei tempi, o secondo le caratteristiche di ambienti diversi. Ci sono sempre più facilmente figure riferibili a tempi chiaramente successivi a quello di Gesù, o profondamente diversi da quello di Betlemme. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi. I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato. Spesso i bambini – ma anche gli adulti! – amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano…: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina”.

In definitiva quella che emerge qui è la forza del presepe come richiamo evangelico, e quindi come strumento di evangelizzazione del soggetto che lo fa, dell’ambiente che lo ospita. In questo modo il presepe richiama un’evangelizzazione dal basso, che non indica la forza delle radici cristiane nella loro espressa citazione nei testi ufficiali, ma la vede nella vita e nei comportamenti di chi si professa cristiano. Iscrivere le radici cristiane con le proprie azioni quotidiane nella storia europea è la risposta che questa Lettera Apostolica sembra indicare all’interrogativo davvero cruciale posto dal professor Olivier Roy, nella consapevolezza che difficilmente l’esclusione dello straniero potrà essere inclusa nei comportamenti cristiani.

 



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