Non me ne abbiano a male gli interessati, anche perché io appartengo ancora a quella genìa di liberali di altri tempi che sanno essere molto caustici e sarcastici verso gli avversari politci ma distinguono sempre, finché possono, il “peccato” dal “peccatore”, o se preferite le idee dalle persone che le fanno proprie.
Eppure, una specie non dico di sconforto, ma certo di rassegnazione viene al solo pensiero che il dibattito politico italiano sia in queste ore dominato dalle dichiarazioni, fra lo sprovveduto e il surreale, di Mattia Santori e Francesca Pascale. E pensare che siamo la patria di Machiavelli, quella in cui la politica dovrebbe a rigor di logica raggiungere livelli di intelligenza e raffinatezza eccelsi! Ma tant’è! Se Santori in questi giorni parla molto pur non sapendo che dire se non che Salvini è quasi, o senza quasi, un “fascista”, e un po’ come accade con Greta Thunberg in molti fanno a gara a rincorrerlo e a mostrargli compiacenza, la Pascale ha parlato solo oggi dopo un lungo periodo di silenzio.
E lo ha fatto non solo per sostenere le battaglie del mondo Lgbt, che con una visione del mondo moderata come quella di colui che chiama “il mio presidente” hanno a che vedere come il cavolo a merenda, ma anche per pronunciare un clamoroso endorsement pro-sardine. Un movimento a cui, ha detto, di guardare “con interesse” ritrovandovi “elementi e quella libertà che furono propri della rivoluzione liberale di Berlusconi”. E qui no, proprio non ci stiamo.
E anzi da liberale mi appello proprio a chi quella “rivoluzione” annunciò, senza fra l’altro mai portarla a realizzazione ma certo contribuendo non poco a cambiare l’asfittico clima consociativo e statalista che si respirava nella politica italiana precedente. Caro presidente Berlusconi, è vero che al cuore non si comanda ma lei ha il dovere di dire alla “sua” Francesca, e a tutti noi che ci crediamo, che “la rivoluzione liberale” non era una cosa da ragazzini, più o meno a loro insaputa strumentalizzati, ma una cosa seria, frutto di analisi storiche e teoriche forti che lei, con la capacità che hanno solo i grandi politici, seppe tradurre in parole semplici e incisive.
Quelle parole arrivarono dritte al cuore dgli italiani abituati ai ghirogori concettuali e alle contorsioni linguistiche dei leader della prima Repubblica. C’è un serbatoio inesauribile di senso e senno liberale nei pochi minuti in cui il 26 gennaio 1994 spiegò agli italiani il perché della sua “discesa in campo”: un profluvio di cultura non conformista, o comunque in Italia minoritaria, di cui lei seppe fare magistrale sintesi politica. E i suoi connazionali, i cittadini del “Paese che io amo”, credeterro in lei e la votarono entusiasti. E se poi l’hanno abbandonata in parte con gli anni è perché non sempre lei ebbe la forza o la possibilità di contrastare quel blocco di potere, direi prima di tutto culturale, che, arroccato nei suoi miti e nelle sue enclave, di voltare pagina non volevo proprio sentir parlare. Oggi, invece, quegli intellò son tutti dalla parte del giovane Mattia, anche se di profondità culturale nelle sue parole non è dato vedere.
Fa bene Francesca Pascale a cercare aria e spirito di libertà, ma l’impressione è che la stia cercando dove essa proprio non alligna: in certo conformismo radical chic e in certo movimentismo piazzaiolo che, come la storia insegna, ha fatto sempre da sponda a chi di “passione per la libertà” proprio non ne ha.