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L’aspirazione all’uomo forte e la paralisi della politica. Il commento di Capozzi

Davvero non si comprendono le reazioni preoccupate o scandalizzate ad uno tra i dati statistici emersi nell’annuale rapporto Censis 2019 “sulla situazione sociale del Paese”: quello secondo cui il 48,2% degli italiani (con incidenza ben maggiore tra le fasce più povere e meno istruite della popolazione) vorrebbe al potere un “uomo forte” che “non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni”.

Se, infatti, si guarda al rapporto nel suo complesso ci si stupisce semmai del fatto che quella aspirazione non venga condivisa da una percentuale anche più vasta della cittadinanza. L’indagine condotta dall’istituto fondato da Giuseppe De Rita disegna un quadro assai preoccupante dell’Italia alla fine del decennio: mancata ripresa economica, persistente disoccupazione, inverno demografico, spopolamento di Sud e zone interne, pesi sempre più gravosi su welfare e risparmio delle famiglie, scarso livello dell’istruzione, “corrosione delle giunture e delle guarnizioni” della società.

Ombre scurissime a cui fanno da contraltare quasi soltanto le consolidate capacità di resilienza della popolazione davanti a difficoltà di lungo corso, la resistenza delle identità e dei tessuti economici locali, la relativa riorganizzazione dell’industria manifatturiera nel Nord Est del Paese.
A partire da questo quadro, il rapporto tra società e classe politica appare ridotto davvero ai minimi termini: l’atteggiamento della stragrande maggioranza degli italiani verso la politica – si sostiene nel Rapporto – è ormai uno stabile disincanto verso l’incapacità, da parte di quest’ultima, di decidere sulle questioni fondamentali per la sopravvivenza e lo sviluppo del Paese.
In realtà la questione politica e istituzionale influisce negativamente in misura decisiva sulla lunghissima, estenuante stagnazione italiana.

Nel mondo globalizzato – in cui continuamente fattori transnazionali influiscono sulle poltiiche interne – riescono a reggere solo i Paesi in cui i governi riescono a salvaguardare, ed anzi a rafforzare, la capacità di prendere rapidamente decisioni efficaci. La democrazia italiana, storicamente caratterizzata da governi deboli e instabili, da istituzioni e leggi bizantine, da diffusi poteri di veto, in tale contesto appare sconfitta in partenza, destinata a soggiacere agli eventi. Come dimenticare che dall’inizio della grande crisi del 2008 nel nostro Paese si sono succeduti 7 esecutivi, di cui uno “tecnico” visibilmente imposto da mercati e dall’Unione europea, nel generale discredito del ceto politico nazionale?

La scorsa legislatura, poi, ha partorito tre governi fragili, frammentati e litigiosi, dei quali nessuno corrispondeva alla volontà espressa dalla maggioranza degli elettori. Ed in quella presente abbiamo visto finora due governi presieduti dallo stesso Presidente del Consiglio con maggioranze simmetricamente opposte. Il tutto sotto la continua influenza dei poteri “neutri”, non sottoposti al giudizio degli elettori. Intanto, per giunta, l’attuale coalizione di maggioranza progetta di cambiare la legge elettorale in senso proporzionale, con prevedibili effetti di ulteriore frammentazione.

L’aspirazione all’uomo forte dalla mani libere al potere non è espressione di nostalgie fasciste, o di una tendenza antidemocratica radicata nella società. Ma la prevedibile, esasperata reazione di tanti davanti alla paralisi della politica democratica e all’impressione di un Paese alla deriva.
Per curare questo male non servono condanne moralistiche. Occorre, molto concretamente, rafforzare i governi attraverso l’adozione di un sistema elettorale integralmente maggioritario, e possibilmente riformare la Costituzione in senso presidenzialista. Tutto il resto è retorica inutile e dannosa.



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