È l’European Green Deal la prima fra le sei priorità della nuova Commissione guidata dalla Ursula von der Leyen, perché deve catturare le tensioni ambientaliste che in maniera trasversale dominano tutta la politica occidentale. Al fine di placare le angosce da emergenza climatica, la regola è di annunciare tagli sempre più ambiziosi, però lontani nel tempo, ben oltre le scadenze elettorali dei politici che, in maniera un po’ irresponsabile, li danno come facilmente raggiungibili, quando, in realtà, sono al limite dell’impossibile.
Così la Commissione annuncia il suo patto verde, green deal, che mira al 2050 alla neutralità carbonica, il che vuol dire che quelle poche emissioni che ci saranno, dovranno essere compensate da assorbimenti per rimettere la CO2 sotto terra. È un inasprimento del precedente obiettivo della Road Map del 2015, quello di arrivare ad una riduzione delle emissioni dell’80-95% nel 2050.
Sempre in base agli impegni della nuova presidente, al 2030 l’obiettivo non è più del -40%, come deciso nel 2014, ma -50%, sempre rispetto al 1990. Oggi siamo al -22%, leggermente sotto quel meno -20% fissato nel 2007 per l’anno prossimo, il 2020. Ci sono voluti 30 anni per raggiungere tale soglia, un micro shock dei prezzi dell’energia intorno al 2008, la più grave recessione della storia moderna con pesante de-industrializzazione e politiche di sussidi alle rinnovabili come mai visto in passato.
Che nei prossimi 10 anni si possa raddoppiare la riduzione è quantomeno arduo, ma diventa irrealistico se si tiene conto che non avremo a disposizione i sussidi del passato e che non esistono gli stessi spazi di efficientamento nell’industria europea, in particolare in quella molto vecchia dell’Est. È vero che i costi di produzione delle rinnovabili sono crollati, ma ciò non sembra sufficiente per una loro penetrazione esponenziale, come richiesto, nei prossimi anni.
Le recenti aste per rinnovabili in Italia, Germania, Francia e UK ci dicono che sia eolico che fotovoltaico incontrano molti problemi: gli spazi a terra non sono abbondanti, l’ostilità delle popolazioni è crescente, le banche non vogliono prendersi grandi rischi senza incentivi garantiti e, soprattutto, l’intermittenza non può salire oltre il 20-30% della generazione complessiva in assenza di grandi stoccaggi che, ad eccezione del vecchio idroelettrico, non si vedono ancora. In Germania, il paese leader, quello che da due decenni annuncia la rivoluzione verde, si sa che servirebbero 7 mila chilometri di rete ad altissima tensione per portare l’elettricità da eolico dal Mare del Nord verso le fabbriche della Baviera e del Baden Wuerttemberg: ad oggi solo 700 chilometri sono stati realizzati.
Roboanti obiettivi servono un po’ per distrarre l’attenzione sulle questioni concrete più amare da discutere. Una riguarda i crescenti costi dei permessi della CO2, quelli del commercio delle emissioni, uno dei vanti delle politiche ambientali della UE. Da 5 € per tonnellata di CO2 fino a tutto il 2017, si è passati a 25 € da fine 2018. Molte aziende industriali, che in passato hanno avuto permessi gratis, dal 2020 dovranno comprarsene di nuovi, in un momento di congiuntura negativa.
Il costo addizionale per le acciaierie è dell’ordine del loro margine operativo. La spinta all’elettrificazione dei trasporti ha portato ad una caduta delle vendite di auto diesel in Europa che sta creando un calo di attività nel settore, in particolare in Germania e, a seguire, in Italia. La caduta della domanda di acciaio dell’industria dell’auto è la prima ragione della crisi dell’acciaio in Europa che ha portato a pesanti tagli produttivi fra cui quello dell’Ilva di Taranto. Facile annunciare ambiziosi obiettivi, ma occorre ricordare che già oggi gli effetti del Patto Verde sulla competitività della nostra industria, e sui suoi livelli di occupazione, sono ben evidenti.