Boris Johnson e i suoi conservatives hanno inequivocabilmente vinto le elezioni generali britanniche ottenendo la maggioranza assoluta, dopo una campagna elettorale durata di fatto fin dalle dimissioni di David Cameron a seguito del referendum pro Brexit.
E alla fine il popolo britannico si è espresso proprio su Brexit, oltre che sul futuro governo di Sua Maestà. A catalizzare su BoJo i consensi della maggioranza dei britannici sono stati proprio la sua volontà di portare ad ogni costo a compimento Brexit, e le sue posizioni in materia di politica economica.
Proprio quest’ultimo campo ha decretato la sonora sconfitta del Labour e del suo leader Jeremy Corbyn, presentatosi con la suggestione di riportare il Regno Unito agli anni 70, con una proposta fondata su nazionalizzazioni e innalzamento della pressione fiscale.
Il popolo britannico ha invece scelto di abbandonarsi a una suggestione thatcheriana, fondata sul mito del Global Britain che vuole il Regno Unito come catalizzatore di investimenti e crocevia del commercio mondiale. È stata questa la proposta rappresentata da Boris Johnson e dai conservatives quali Jason Rees-Mogg e Micheal Gove, un tempo giovani promesse di Oxford cresciute nel mito della Iron Lady. E questa proposta ha già riscontrato il sostegno di Donald Trump che ha ribadito la sua volontà di giungere rapidamente alla definizione di un Free Trade Agreement tra Usa e Regno Unito.
D’altronde esiste una corrente di pensiero, radicata tra autorevoli osservatori della politica e dell’economia di Oltre Manica, secondo cui lo stesso referendum su Brexit del 2016 e la vittoria del Leave, sono stati favoriti da una precisa strategia, messa in atto da ambienti finanziari oltre che politici, finalizzata a slegare il Regno Unito dai vincoli europei per riposizionare l’economia britannica in maniera autonoma verso più intensi rapporti con la Cina e il mondo arabo. Secondo questa visione è in quest’ottica che vanno considerate le relazioni che furono avviate con Pechino al fine di inserire il Regno Unito sulla nuova Via della Seta, così come l’ingresso della valuta cinese, il Renminbi, tra le valute di riserva del Fondo Monetario Internazionale grazie ad un’intesa intercorsa sulla piazza finanziaria della City con lo sviluppo di un pool di liquidità cinese su Londra e l’accordo a garanzia delle contrattazioni tra le due banche centrali, la Bank of England e la People’s Bank of China.
E sempre in quest’ottica andrebbero considerate le attività diplomatiche riguardanti l’Aramco, la compagnia petrolifera di bandiera dell’Arabia Saudita, o i rapporti sempre più intensi con Washington per la realizzazione di un accordo di libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico. Obiettivo finale di questa strategia sarebbe quello di riposizionare il Regno Unito tra gli Usa a Occidente e la Cina a Oriente, facendo di Londra la Singapore dell’Atlantico, una sorta di zona franca, favorita da una forte deregulation e da incentivi fiscali, dalla quale far transitare una sempre più ingente quantità di investimenti, perseguendo la strategia di “Global Britain” o “Empire 2.0”.
I sostenitori di questa visione, infatti, sottolineano come negli ultimi anni gli scambi commerciali del Regno Unito sono cresciuti più velocemente con i Paesi con i quali interagisce con le regole del Wto, Cina e Usa su tutti, e confutano la posizione di chi sostiene che si sia ormai creata una situazione di interconnessione con l’economia dell’Unione tale per cui l’uscita dalla Ue non potrebbe che avere effetti negativi e recessivi sull’economia britannica. Su questi temi nei mesi scorsi abbiamo più volte avuto modo di dibattere e confrontarci, anche da diversi punti di osservazione, in convegni ed altre iniziative, tra gli altri, con Pasquale Merella, con l’esponente di Guildhall Mark Wheatley, e con Bepi Pezzulli, autore del libro “L’altra Brexit. Geopolitica & Affari”.
A questo punto il prossimo passo del nuovo governo sarà l’approvazione del Brexit Deal, e ci sono pochi dubbi che si ripartirà dal testo sostenuto da Johnson e bocciato dalla House of Commons nella sua composizione pre-elezioni. Il 31 gennaio verosimilmente il regno Unito lascerà l’Ue, e poi si riaprirà il tavolo per la realizzazione di un accordo sulle future relazioni economiche e commerciali tra le due sponde della Manica, e sarà quella, per tutti, la vera posta in palio.