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Lobby: possibilisti contro negazionisti

La notarella diffusa ieri da Palazzo Chigi lascia con la bocca asciutta. Chi la volesse leggere tutta la trova Qui. A tirarle fuori con le pinzette, di notizie ce ne sono due. La prima è che, cito testualmente, “Nel corso dell’incontro si è dato avvio a una discussione programmatica relativa alla disciplina della categoria ed è stata sottolineata la necessità di arrivare, a breve termine, a una legislazione che regolamenti l’attività delle cosiddette “lobby“. Tradotto: abbiamo discusso, abbiamo ascoltato, ma non abbiamo tutta la vita davanti. I tempi stringono e bisogna approdare al testo nel minor tempo possibile. Già nel prossimo Consiglio dei Ministri? Non è da escludere.

Tanto per essere chiari il concetto viene ripetuto poco dopo nella dichiarazione di Roberto Garofoli, il Segretario generale di Palazzo Chigi: “Il governo  intende coinvolgere le categorie in previsione di un intervento normativo. (…) Il governo ha ora intenzione di esaminarle e di tenerne conto nell’elaborare una disciplina che assicuri la piena trasparenza dei rapporti tra portatori di interessi particolari e decisori pubblici”. Tradotto: valuteremo quello che ci avete detto, e vi faremo sapere. Arrivederci e grazie.

Sì, appunto, ma cosa si sono detti? Tante cose, alcune sono interessanti, altre meno. Alcune erano focused, come dicono gli americani, altre no. Fortuna che, come avevo anticipato ieri (Qui) il nodo centrale è – e resta – uno solo: quello del registro. Per farla semplice: ci sono due scuole di pensiero. Chiamerò la prima la “scuola dei possibilisti” e la seconda la “scuola dei negazionisti”.

Possibilisti e negazionisti partono dallo stesso presupposto: l’esperienza europea del registro. Come è noto oggi Commissione e Parlamento hanno un registro unico, a iscrizione facoltativa. Significa che se sei un lobbista e vuoi ti iscrivi. Se non vuoi non ti iscrivi. Che cambia? Praticamente nulla. Anzi, per la verità cambia che se sei iscritto hai più obblighi e burocrazia da rispettare. E quindi, a conti fatti, chi te lo fa fare? Nessuno, appunto. Non c’è da stupirsi allora se l’ultimissima indagine di Burston-Masteller sulle lobby in Europa dice chiaramente che sono giornalisti (il 41%) e studi legali (38%) quelli che hanno meno interesse ad avere visibilità attraverso un registro.

Va detto che non tutti giudicano il “registrone” facoltativo europeo un fallimento. Per esempio il vice presidente della Commissione europea, Maroš Šefčovič, nel commentare l’iniziativa è stato molto chiaro: siamo a 5600 iscritti, è un buon risultato (Qui la dichiarazione di Šefčovič, e Qui una sua videointervista rilasciata nel 2010). Chissà se Šefčovič ricorda che, quando i registri erano separati, quello del Parlamento di iscritti ne contava molti di più. Forse no. Ma di certo ricorda i continui fallimenti delle proposte per avere un registro obbligatorio. Lapo Pistelli,  da europarlamentare dovette vedersela con un fuoco di veti incrociati che affossarono la sua proposta di un registro unico per tutte le istituzioni europee. Le stesse difficoltà che venti anni prima, nel 1991, aveva incontrato la Commissione per il regolamento, la verifica dei poteri e le immunità del Parlamento europeo, autrice di una proposta di codice di condotta e registro per i lobbisti. Andò male anche allora. La proposta Galle, dal nome dell’autore, non riuscì a superare nemmeno lo scoglio dell’esame in commissione. Il secondo tentativo, del giugno 1994, avrebbe impiegato due anni, e portato alla pubblicazione di due rapporti: il rapporto Ford e quello Nordmann. Modificati più volte prima di giungere all’esame della sessione plenaria, nel 1996, entrambi finirono per essere respinti. Soltanto qualche mese più tardi, a giugno, il Parlamento riuscì ad approvare una versione edulcorata del rapporto Nordmann, limitandosi però ad alcune limitazioni a carico dei parlamentari europei (per esempio quelle relative ai doni e le regalie) e alcune (blande) garanzie sulla trasparenza.

Insomma, non proprio quello che si definirebbe un successone questo registro europeo facoltativo. Ma torniamo ai nostri amici possibilisti e negazionisti. I primi hanno spiegato ai membri del governo che nel registro obbligatorio vedrebbero una possibilità di crescita del settore. Sono coerenti con la linea secondo cui rendersi trasparenti sarà pure un onere, ma consentirà di levarsi di dosso critiche e malignità. Al che i negazionisti hanno ribadito che no, non conviene imporre un obbligo. Ci vuole libertà di scelta, aggiungendo che chi non si iscrive rinuncia comunque ai vantaggi del registro. Quali? Non è chiaro. Quello che invece è molto chiaro è che il non iscritto continuerebbe ad avere libertà di manovra, controlli ridotti, nessun codice deontologico, e soprattutto non dovrebbe raccontarci alla fine dell’anno quanto ha speso e quanto ha incassato.

è tutto là il problema. E per fortuna che possibilisti e negazionisti sono amici, si frequentano, parlano con gli stessi interlocutori e partecipano alle stesse iniziative. Come quella capitolina di una settimana fa, che avrebbe dovuto produrre un documento, una presa di posizione comune, un  pamphlet. Chiamatelo come volete perché, almeno per il momento, ha prodotto solo “dibattito” in merito all’opportunità dei partecipanti di firmarlo oppure no.

Vedremo chi la spunterà. Per il momento non si può far altro che citare la massima di Orazio “Grammatici certantet adhuc sub iudice lis est”.



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