Per i suoi 170 anni la Civiltà Cattolica pubblica un numero di grandissimo spessore e qualità, che analizza tanti scenari rilevanti dell’attuale scacchiere globale. Tra questi spicca il nuovo contributo di padre Giovanni Sale sull’autunno caldo di Libano e Iraq. La piaga del confessionalismo che tormenta la qualità della stesso Stato oltre che della democrazia in entrambi i Paese è parsa andare in crisi per davvero davanti a questi autunni caldi paralleli, quello iracheno è quello libanese.
E al centro della rinascita prospettata da entrambe le rivoluzioni non violente spicca un luogo, la piazza. Piazza Tahrir a Baghdad e Piazza dei Martiri a Beirut. È facile desumere da questo dato di fatto una novità rivoluzionaria: in piazza si danza, si canta, si ironizza sui politici corrotti: insomma in piazza si diventata cittadini. I moti iracheno-libanesi stanno segnando qualcosa di nuovo, di epocale: la riconquista, la riappropriazione da parete della collettività dello spazio pubblico. E il carattere interconfessionale delle piazze iracheno-libanesi indicano una speranza democratica radicata nel concetto di cittadinanza. Questa radice non è frutta di un’esportazione. Il modello libanese la prevedeva, visto che gli accordi pace del 1990 prevedevano due camere, una su base confessionale, per offrire garanzie a tutte le comunità, una su base partitica, per consentire a tutti i cittadini di avere i loro diritti in base alle loro idee. Guarda caso il regime della potenze occupante, la Siria, non consentì mai la creazione di questa seconda camera.
Tutto questo si spiega facilmente, ma anche localmente. Nonostante l’avvio positivo con il decreto iniziale, quello delle Tanzimat, cioè le riforme ottomane, il nuovo corso della Sublime Porta riconosceva con i successivi decreti i cittadini non come individui, ma come parti costitutive delle loro comunità confessionali, o “nazioni”, i millet ottomani. Se lo spazio pubblico finalmente torna protagonista vuol dire che gli individui, le persone che vivono le sofferenze irachene e libanesi, hanno scoperte che non è restando nel loro millet che ne usciranno: l’altro cristiano, druso, sunnita, sciita e così via vive la stessa difficoltà, solo insieme se ne può uscire. Giocati gli uni contro gli altri dai tempi di Saddam Hussein fino a quelli dell’Isis gli iracheni prendono consapevolezza di un’altra realtà.
Per questo padre Giovanni Sale può citare un grande esperto di Iraq, il giornalista francese Georges Malbrunot, che in Iraq fu sequestrato anni fa insieme al suo collega Christian Chesnot, quando scrive: “Si respira – scrive Georges Malbrunot – un risveglio del sentimento nazionale e una riduzione dell’elemento confessionale. Si sta scrivendo una pagina nuova nella storia di questo vecchio Paese e, come spesso succede, la si scrive nel sangue”.
L’articolo infatti non trascura la durezza della risposta delle milizie, in particolare in Iraq, contro i manifestanti. “Dietro questo violento confronto tra una gioventù senza futuro (il 40% dei giovani iracheni sono disoccupati) e una ‘casta’ che si aggrappa ai propri arcaici privilegi, persiste uno status quo pericoloso, che non si sa ancora che direzione prenderà, e chi, alla fine, vincerà la contesa. […] Pertanto le insurrezioni non pongono in discussione soltanto gli interessi dei partiti politici locali, ma gli stessi legami dei due sistemi di governo agli ayatollah di Teheran, molto interessati a controllare strategicamente la regione della cosiddetta “mezzaluna sciita”.
Concretamente ciò significa che in Libano è impossibile immaginare che il partito (milizia) sciita Hezbollah – considerato da Israele, nonché dagli Usa, un movimento terrorista antisionista – possa, dietro la pressione della piazza, abbandonare la posizione di potere raggiunta. O che in Iraq si faccia a meno della presenza che l’Iran ha fortemente impiantato sia a livello militare che politico ed economico. L’Iran ha gli occhi puntati sullo sviluppo delle insurrezioni popolari in Libano e in Iraq. In un primo tempo il governo di Teheran aveva timore che le contestazioni contagiassero anche il proprio Paese. E così effettivamente è avvenuto. Gli ayatollah iraniani non possono permettere che questi due grandi Paesi con forte presenza sciita sfuggano dalla loro area di controllo. Ciò, infatti, indebolirebbe la pozione strategica dell’Iran in tutta la regione mediorientale.
Sta di fatto, però, che l’influenza iraniana è presa di mira negli slogan, soprattutto in Iraq. “A Beirut – scrive Julie Kebbi – chi scende in piazza esprime il suo rifiuto verso tutti i partiti confessionali, tra cui Hezbollah, il braccio dell’Iran in Libano”. Il partito sciita ha attaccato alcune manifestazioni, distruggendo posti di ristoro e altro, senza tuttavia provocare vittime. Secondo alcuni commentatori, le proteste in Libano e in Iraq rappresentano l’insofferenza per l’influenza iraniana nelle piazze arabe, dopo il sostegno dato da Teheran al regime siriano di Assad”.
L’incastro dei due autunni caldi dentro l’incastro mediorientale dimostra con chiarezza che la guerra per la conquista dell’Islam da parte di Arabia Saudita e Iran non è una guerra tra sunniti sciiti, ma tra imperi. I sunniti e gli sciiti di Iraq e Libano infatti stanno insieme, in piazza, contro i regimi. E sono i regimi che li perseguitano. In Iraq e Libano oggi questo vuol dire soprattutto le milizie filo iraniane per via degli attuali equilibri. Infatti le proteste sono cominciate in Iraq e Libano ma presto si sono estese all’Iran.
La propaganda di regime ha interpretato immediatamente i fatti secondo i soliti clichés: le insurrezioni di piazza sono state manovrate dai nemici della rivoluzione islamica – cioè da agenti stranieri della Cia o da “Mojahedin del Popolo”, nemici giurati della rivoluzione islamica –; i manifestanti sono stati definiti “banditi”, e si sono quindi autorizzate le forze dell’ordine ad agire con durezza. Le rivolte però sono continuate, anche perché il malcontento sociale che scuote il Paese non è soltanto economico, ma più profondo. Viene contestata l’esportazione della rivoluzione islamica che legittima il regime e spende denaro pubblico in guerre lontane, privando i suoi cittadini di servizi basici. Ma anche se le proteste in Iran, Iraq e Libano venissero in qualche modo sedate, il problema per Teheran rimarrebbe. Non sono soltanto gli americani, gli israeliani o i sauditi a voler contenere l’influenza sciita sulla regione e a preoccupare – come si è visto nelle scorse settimane – i governanti della Repubblica Islamica. La pressione viene anche dalle comunità arabe depauperate e disilluse del Medio Oriente – come del resto, dall’altra parte del globo, quelle latinoamericane –, per le quali i vecchi slogan sulla resistenza contro i “nemici esterni” della rivoluzione sciita non sono più sufficienti e neppure necessari.
Nelle manifestazioni in Libano, ma anche in Iraq, si è registrato un fenomeno alquanto significativo. Si sono visti segni di un superamento delle tradizionali aderenze religiose, settarie e politiche che hanno caratterizzato gli ultimi decenni e l’emergere di una nuova coscienza di lealtà civica della nazione.
Questa coscienza civica, che è una pietra angolare sulla quale il Libano è stato fondato 100 anni fa, come rilevato anche nel Comunicato finale dell’Assemblea dei Patriarchi e Vescovi Cattolici in Libano, il 15 novembre 2019, può diventare un esempio importante per tutta la regione. Potrebbe essere un punto di svolta in un periodo nel quale vi è un forte bisogno di rafforzare i princìpi di uguaglianza dei cittadini quale fondamento per costruire società più giuste, più inclusive e più armoniche. Da questo dipenderà anche la continuità della presenza cristiana e del proprio apporto al mondo arabo della regione.
La lettura di padre Giovanni Sale è tra le più puntuali che siano offerte in Italia. La speranza è che in vista dell’imminente incontro sul Mediterraneo promosso dalla Cei con tutti i vescovi del bacino mediterraneo i collaboratori del cardinal Bassetti lo possano leggere e valutare con attenzione.
La vignetta di Mario Biani in occasione dei 170 anni de La Civiltà Cattolica