Il prossimo 8 gennaio il presidente russo, Vladimir Putin, si recherà in Turchia per incontrare l’omologo, Recep Tayyip Erdogan. I temi da discutere sono tanti e spinosi, in primo luogo la situazione in Siria e in Libia, dove le posizioni dei due grandi alleati non per amore, ma per convenienza, confliggono palesemente.
A questi si è aggiunto anche l’Iran e, anche in questo caso, non è difficile osservare come gli atteggiamenti dei due Paesi siano molto diversi e come, lontano dalle dichiarazioni ufficiali, nei corridoi del potere la notizia della morte di Qassem Soleimani, sia stata molto probabilmente accolta in modo diametralmente opposto. I ministri degli Esteri dei due Paesi, Sergei Lavrov e Mevlut Cavusoglu, si sono sentiti telefonicamente ieri sera. L’ordine del giorno era la situazione in Siria, Libia e Iraq.
Il capo della diplomazia russa, ieri, è stato a lungo al telefono anche con il segretario di Stato americano, Mike Pompeo. Le parole della Russia sull’assassinio di Soilemani sono state particolarmente dure. “Siamo convinti – si legge sul comunicato del ministero degli Esteri – che queste azioni non aiutino a trovare una soluzione alla complessa situazione che si è creata in Medioriente. Al contrario, portano a una nuova escalation di tensioni nella regione”.
Maria Zakharova, portavoce di Lavrov, non si è risparmiata un’espressione meno diplomatica, definendo l’attacco al generale iraniano “un picco di cinismo” da parte dell’amministrazione Usa, che ha condotto un attacco ignorando tutte le organizzazioni e le istituzioni internazionali. “Non sono interessati alla risposta a livello globale, ma a cambiare il bilanciamento dei poteri nella regione”, ha chiosato.
Mosca, del resto ha più di un motivo per essere irritata e preoccupata per la morte di Soilemani. Era stato proprio il generale, nel 2015 a studiare la strategia che ha permesso alla Russia di entrare con una forte presenza militare nella crisi siriana. Soilemani era anche un forte sostenitore di Bashar al-Assad e il garante di tutto un sistema di equilibri, in Siria come in Iraq, che ne facevano per Mosca un interlocutore affidabile e difficilmente sostituibile.
Molto diversa la reazione e la situazione per Ankara. Se si legge attentamente il comunicato diramato dal Ministero degli Esteri turco, i toni sono molto più smussati rispetto a quello russo, ma soprattutto, manca un attacco agli Stati Uniti. Segno che il presidente Erdogan continua quel suo doppio binario di rapporti con Washington, fatto di crisi e successivo ribilanciamento delle relazioni, su una morte che per la Turchia è tutto fuorché una tragedia.
“Siamo profondamente preoccupati per l’escalation di tensione fra Usa e Iran nela regione – si legge -. Ripetiamo con fermazza che trasformare l’Iraq in una zona di conflitto danneggerà la pace e la stabilità non solo in Iraq, ma nell’intera regione. In questo contesto, l’operazione degli Usa avente come obiettivo il generale Qassem Soilemani, Comandante delle forze Quds delle guardie rivoluzionarie iraniane, aggraverà ovviamente l’instabilità nella regione. Si deve anche notare che queste azioni che minacciano la stabilità regionale esacerberanno il ciclo di violenze con conseguenze sugli interessi di tutte le parti. La Turchia è sempre stata contro interventi stranieri, attentati e conflitti settari nella regione. Invitiamo tutte le parti ad agire con moderazione e discrezione, per evitare passi unilaterali che possano mettere a rischio la pace e la stabilità nella nostra regione, dando priorità alla diplomazia”.
Come si può notare, la posizione turca sull’Iraq, è diametralmente opposta a quella della Libia, dove Ankara ha fatto dell’iniziativa unilaterale il fondamento della sua azione politica. Ieri il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha convocato i vertici di Forze Armate e servizi segreti, nonché il ministro della Difesa, in una riunione fiume su come approcciarsi a questa crisi che da una parte avvantaggia la Turchia, ma che dall’altra Ankara rischia di pagare molto caro.
Se per Mosca il generale era un punto di riferimento, la Turchia ne avrebbe volentieri fatto a meno. Troppo vicino ad Assad ma soprattutto troppo avverso ad Ankara. Era proprio Soilemani il principale attore del contenimento turco in Siria, quello che consigliava al presidente Erdogan di stare fuori dalla crisi siriana fin dal suo inizio e quello che faceva pressioni su Mosca perché limitasse l’alleato turco.
In aggiunta a questo, Erdogan teme una escalation del conflitto che poterà inevitabilmente a un coinvolgimento dei civili, con nuove, possibili ondate di rifugiati, diretti verso la Turchia, che già ospita oltre tre milioni di siriani e che deve già fare i conti con le spinte migratorie nella zona di Idlib, nel nord della Siria. Una tragedia umana non solo per la Turchia, ma anche per l’Ue, che verrebbe sottoposta a nuovi ricatti.