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Soleimani, ecco come ne discutono i Dem americani. Una lezione per l’Italia

Dai candidati democratici che corrono alla Casa Bianca alle prossime elezioni presidenziali è giunta una prevedibile condanna dell’uccisione a Baghdad di Qassem Soleimani, generale iraniano a capo della Forza Quds e uno dei più potenti uomini in Medio Oriente, ordinata dal presidente Donald Trump in persona. Joe Biden ha parlato di una “bomba lanciata in una polveriera”. Elizabeth Warren di “mossa spregiudicata”. Michael Bloomberg di “decisone impulsiva”. Dietro al canovaccio della campagna elettorale c’è però un intero mondo di esperti, accademici e anche parlamentari dem americani che si sono ben guardati dal condannare tout court una decisione che, condivisibile o meno, è stata supportata da un’intensa attività dell’intelligence a stelle strisce e non solo.

Su twitter il dibattito fra addetti ai lavori ha preso una piega molto tecnica e poco politica. Chiunque abbia lavorato nel mondo della sicurezza americana, anche solo i cultori della materia, conosce bene la figura di Soleimani e la legacy che il generale ha costruito attraverso il Medio Oriente. Una legacy che è stata pagata a caro prezzo dal corpo diplomatico e militare statunitense impiegato nella regione, che negli ultimi venti anni è finito innumerevoli volte nel mirino della rete di proxies controllati da Soleimani assieme al personale dei suoi alleati regionali.

“Come ex analista delle milizie sciite che ha partecipato a diversi tour in Iraq e lavorato alla Casa Bianca con i presidenti Bush e Obama, e in seguito al Pentagono, ho partecipato a innumerevoli conversazioni su come rispondere alle violente campagne nella regione di Qassem Soleimani” ha scritto Elissa Slotkin, deputata democratica recentemente balzata agli onori delle cronache per aver conquistato per la prima volta all’Asinello alle elezioni di mid-term del 2018 l’inespugnabile distretto del Michigan.

Slotkin, che è stata a lungo analista politica della Cia e un punto di riferimento per il Dipartimento della Difesa su tutto ciò che riguarda l’Iraq, in vent’anni di carriera ha conosciuto da vicino “la crescente organizzazione e sofisticazione delle attività militari pubbliche e sotto copertura di Soleimani, che hanno significativamente contribuito alla destabilizzazione della regione”. “Ho visto amici e colleghi feriti o uccisi da razzi, colpi di mortaio e granate iraniane fornite ai proxies iracheni sotto la guida di Soleimani per essere utilizzate contro le forze statunitensi – racconta la dem – abbiamo visto il suo potere crescere e portare forza e capacità alle milizie in Iraq, Siria, Libano, Yemen e a cellule più piccole in Medio Oriente e in giro per il mondo, con conseguenze devastanti”.

Trump, spiega la Sotkin, ha assunto una decisione che né Bush né Obama, pur potendo, hanno voluto prendere. Ora c’è da aspettarsi una rappresaglia iraniana, dice l’ex Cia, “contro i nostri diplomatici, funzionari dei Servizi o militari di alto grado, i nostri alleati e partner nella regione, o attacchi mirati nel mondo occidentale”. Ma i pericoli non cambiano la bottom line: “Questa amministrazione, come tutte le altre, ha il diritto di agire per auto-difesa”. È un giudizio che ha fatto suo con un altro popolare thread Karim Sadjadpour, Senior Fellow del Carnegie Endowment, think-tank di area liberal specializzato nella politica estera. Tra i massimi esperti del settore, e di certo non un fan dichiarato del presidente, Sadjapour giunge alla stessa conclusione di Sotkin. “Nessun uomo al mondo è stato direttamente coinvolto in più conflitti, in più Paesi, per un periodo di tempo più prolungato di Qassem Soleimani – ha cinguettato l’analista – la sua morte è un’enorme perdita per il regime iraniano che sta combattendo attivamente tre guerre per procura con America, Israele e Arabia Saudita”.

Sono un luogo comune l’unanime consenso e venerazione di cui godeva Soleimani in Iran, continua l’esperto: “Amato dal regime (sia dagli oltranzisti che dai moderati), ammirato dagli zeloti persiani/sciiti nazionalisti per la sua lotta contro gli arabi/sunniti, detestato da molti iraniani stanchi di vivere sotto uno Stato di polizia”.

L’attendismo della Casa Bianca dopo gli attacchi di milizie filoiraniane quest’estate contro le petroliere nel mare di Hormuz e la Saudi Aramco hanno portato Ali Khamenei a un “errore di calcolo”. L’uccisione di Soleimani lancia un messaggio inequivocabile, spiega Sadjadpour citando una fonte anonima dell’amministrazione: “Se uccidono uno dei nostri uomini noi ne possiamo uccidere trenta. Se attaccano la nostra ambasciata noi possiamo portarci via uno dei loro comandanti”. Ora l’Ayatollah ha due scelte: “Una risposta debole può fargli perdere la faccia, una eccessiva la sua testa”.

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