Skip to main content

Sull’Iran si consolida l’asse Usa-Israele. Europa fuori gioco (per ora)

Di Gabriele Carrer

È il capo della diplomazia di Washington, Mike Pompeo, l’uomo da seguire per comprendere i rapporti tra gli Stati Uniti e i loro alleati nelle ore successive all’uccisione di Qassem Soleimani, capo dell’unità d’élite dei Pasdaran iraniani, avvenuta nella notte tra giovedì e venerdì. Il segretario di Stato ha telefonato al premier israeliano Benjamin Netanyahu mercoledì. Al centro della telefonata – la seconda in una settimana tra i due – l’Iran e l’attacco all’ambasciata statunitense di Baghdad guidato dalle milizie sciite irachene sostenute da Teheran. Il giorno successivo, giovedì, di prima mattina il capo dell’esecutivo di Gerusalemme ha accennato su Twitter a “cose molte, molte drammatiche” che stanno accadendo nella nostra regione e ha rinnovato l’asse con Washington scrivendo “siamo in contatto continuo con i nostri grandi amici degli Stati Uniti”.

Poche ore dopo, l’attacco. E subito sono giunte le congratulazioni di Netanyahu, appena rientrato dalla Grecia per lo storico accordo sull’EastMed, al presidente statunitense Donald Trump: “Israele ha il diritto di difendersi. Gli Stati Uniti hanno lo stesso identico diretto. Soleimani è responsabili delle morti di cittadini statunitensi innocenti e molti altri. Stava pianificando altri attentati”.

Ma una nostra fonte diplomatica a Gerusalemme ci invita a notare un articolo pubblicato su Ynetnews, la versione online e in lingua inglese del popolare quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Il titolo dell’analisi firmata da Alex Fishman è “L’Iran in guerra può essere un bene per Israele”. Il sottotitolo giù spiega tutto: “Se Teheran decidesse di vendicarsi dell’attacco statunitensi alle sue milizie in Iraq farebbe un favore a chi a Gerusalemme sostiene l’opportunità di utilizzare la crescente impopolarità dell’Iran in Iraq e la sua crisi economica interna per scacciarlo dalla Siria”. Si citano Hezbollah, Pompeo, il patto nucleare Jcpoa. Ma non si cita affatto – ed è questa la particolarità a cui prestare attenzione – Soleimani, il cui ruolo in Siria è stato fondamentale per la sopravvivenza del regime di Bashar Al Assad.

Alcuni giorni fa il Jerusalem Post registrava che il presidente Trump, stanco dell’instabilità politica israeliana dopo molte mosse pro Gerusalemme a partire dallo spostamento dell’ambasciata, sta prendendo le distanze dal premier Netanyahu. Ma il suo vuoto lo sta riempiendo Pompeo, la figura nell’amministrazione statunitense più vicina a Israele e più “falco”, scrive il giornale israeliano.
In queste ore successive all’uccisione di Soleimani la diplomazia israeliana è stata abbastanza prudente temendo che un’eventuale reazione iraniana si abbatta sui suoi cittadini e le sue sedi all’estero. Ma sull’asse Netanyahu-Pompeo le relazioni tra Israele e Stati Uniti si stanno infittendo. E la morte dell’uomo considerato il numero due del regime iraniano è un fattore di consolidamento dei rapporti tra il premier e il segretario di Stato ma anche tra i due Paesi.

Ed è in questo quadro che va rilevato come ormai Washington ritenga l’Europa un partner di serie B. Forse anche perché, come dimostra l’intervista rilasciata oggi dall’ex premier Massimo D’Alema a Repubblica, i singoli Paesi europei fanno appello a una soluzione europea quando sono essi stessi a mancare di un piano. E infatti Pompeo a Fox News ha bacchettato gli alleati europei, a suo giudizio non “così disponibili” come avrebbero dovuto nel comprendere le ragioni dietro il raid contro Soleimani.

×

Iscriviti alla newsletter